Cesare Borgia è un personaggio emblema del suo tempo. Nobile, ricco, legato a doppio filo con il potere della Chiesa, allo stesso tempo raffinato uomo di cultura e gusto estetico, oltre che valente condottiero e abile e spregiudicato politico.
Ebbe un grande demerito, ovvero quello di finire in una fazione perdente, venendo demonizzato e additato dai potenti dell’epoca – tranne che da Niccolò Machiavelli, anche lui un personaggio inviso all’establishment – e, di conseguenza, dalle generazioni successive, come esempio dei peggiori attributi umani.
In verità non si comportò in maniera dissimile rispetto ai grandi del tempo. Forse la sua colpa maggiore fu quella di voler incrinare, da solo, lo status quo della penisola, fondando un principato nuovo, potente e moderno. L’impresa, come andremo a vedere assieme, si rivelò superiore alle sue forze, ma andiamo per gradi.
Cesare Borgia nacque nell’abbazia di Subiaco, poco distante da Roma, nel 1475. Era il primogenito del cardinale valenzano Rodrigo Borgia, nipote del Papa Callisto III. All’epoca, come anche in passato, non era raro che gli uomini di Chiesa avessero figli naturali, spesso riconosciuti in varie forme per mantenere un minimo di rispetto formale delle regole ma che facevano carriera come se fossero figli legittimi.
Nel caso del cardinale Rodrigo, egli ottenne da Sisto IV un riconoscimento per Cesare come “figlio naturale di un cardinale vescovo e di una donna sposata”. I piani del padre erano quelli di instradare il primogenito alla carriera ecclesiastica, perciò gli garantì un’istruzione di prim’ordine, mandandolo a Perugia e a Pisa, dove studiò giurisprudenza con successo con i migliori professori.
Ci trovavamo nel pieno Rinascimento e le famiglie più nobili mandavano i loro figli in queste università dove imparavano a conoscersi tra loro in prima adolescenza. Immaginate che fossero una sorta di Harvard, Cambridge oppure Oxford, dove i discendenti dei signori di Stati, città e potenti feudi laici ed ecclesiastici si frequentavano tra una lezione e l’altra, oltre che alle numerose feste. Cesare qui ebbe modo di fare amicizia con Giovanni de Medici – futuro Papa Leone X -, quartogenito di Lorenzo il Magnifico, che a 16 anni era già cardinale mentre studiavano assieme a Pisa.
Rodrigo decise allora di mettere al passo anche il figlio Cesare, facendolo nominare dallo stesso Papa Innocenzo VIII vescovo di Pamplona nel 1491. Il giovane aveva appena 15 anni e non aveva mai ricevuto gli ordini sacerdotali, ma erano inezie per l’epoca.
Giusto l’anno dopo il cardinale Rodrigo venne eletto pontefice con il nome ufficiale di Alessandro VI, cosa che gli permise di promuovere rapidamente il figlio come arcivescovo di Valencia e infine cardinale a soli 17 anni.
A quel tempo il papato era tanto secolarizzato e paganeggiante, grazie alla riscoperta della cultura latina e greca, da scatenare, pochi anni più tardi, la severa riforma di Martin Lutero. La vita degli ecclesiastici, che fossero Borgia, Medici, Colonna, Orsini, della Rovere, Sforza e via dicendo era del tutto simile a quella dei principi laici, alcuni si vantavano di non essere mai stati nella loro sede e di non avervi mai celebrato messa, ma a tutti interessavano le rendite economiche riconnesse al riconoscimento del possesso di abbazie, vescovadi o simili per mantenere il loro sfarzoso stile di vita.
Cesare non era interessato alla vita ecclesiastica, anche se non disdegnava le entrate ad essa riconnesse, ma espresse più e più volte la volontà di tornare laico e proseguire una carriera in ambito nobiliare o militare.
La sua ambizione si poté concretizzare dopo la poco chiara morte – molti all’epoca lo additarono come possibile responsabile – del fratello Giovanni, duca di Gandia e altro figlio naturale di Rodrigo Borgia. Nel 1498 poté lasciare la porpora cardinalizia e indossare l’armatura come Gonfaloniere della Chiesa e capitano di guerra per il Pontefice.
Alessandro VI aveva in animo di reimpossessarsi del territorio papale delle legazioni, tutta l’area dell’Emilia e della Romagna che era nominalmente possesso di Roma ma si autogovernava da decenni. Le forze armate pontificie erano però deboli e i Borgia decisero di affidarsi alla potenza militare esterna: la Francia.
Come ho spiegato nel mio articolo sulla Prima Guerra d’Italia, i sovrani transalpini vantavano diritti su Napoli e, con Luigi XII, anche su Milano – di cui si volevano vendicare per il tradimento del 1495. Il Papa promise di sostenere le loro pretese su questi Stati, oltre che di concedere la nullità del matrimonio al monarca che voleva risposarsi con Anna di Bretagna, cosa che avrebbe rafforzato la sua posizione interna.
In cambio di tale aiuto Luigi promise in moglie a Cesare Borgia Carlotta d’Aragona, erede presunta al trono di Napoli, oltre che vari titoli nobiliari e il supporto militare francese alle ambizioni del giovane. Ci fu però un intoppo di non poco conto: Carlotta rifiutò di sposare “il bastardo del Papa” e Cesare, che di fegato e orgoglio ne aveva da vendere, rifiutò di consegnare la bolla papale che permetteva l’annullamento del matrimonio del re Luigi.
Ci vollero dei mesi per concordare un nuovo accordo, dove Carlotta d’Aragona venne sostituita con la nipote del monarca, Charlotte d’Albret di Navarra. Lei sposò Cesare e Luigi gli offrì il ducato di Valentinois, da cui derivò il suo nomignolo di duca Valentino. Solo allora il giovane consegnò la bolla e Luigi poté procedere con la nullità del matrimonio e i suoi piani politici italiani.
Nel 1499 Francia, Venezia e la Santa Sede mossero contro Milano, che conquistarono con facilità cacciandone il subdolo Ludovico il Moro. Visto il rapido successo Luigi consegnò una parte delle sue truppe a Cesare per rimettere ordine nelle Romagne e ristabilirvi il potere del papato. Alessandro VI, che era stato tenuto informato sulle manovre della truppa, inviò ai signori di Pesaro, Imola, Forlì, Faenza, Urbino e Camerino, una lettera in cui li dichiarava decaduti dai loro feudi, spianando così la strada alla conquista del figlio e donandogli un intero principato.
La lotta fu cruenta e Cesare dovette assediare ed espugnare Forlì, Cesena, Rimini e Faenza, scontrandosi con Caterina Sforza, i Malatesta e i Manfredi. Nel 1501 Firenze decise di appoggiare Cesare, non volendosi inimicare sia il Papa che i francesi, ed è qui che il giovane conobbe ed impressionò Niccolò Machiavelli, tanto da diventare esempio nel suo libro “Il Principe”.
Non pago di questi successi il duca Valentino mosse verso Piombino, territorio strategico a sud della Toscana, cacciando il suo sovrano Iacopo IV Appiani, che si rifugiò a Genova. A questo punto, messo ordine nel centro Italia, i francesi e gli spagnoli invasero Napoli. Luigi aveva infatti proposto di dividere il ricco paese con Ferdinando: Campania e Abruzzo alla Francia, Calabria e Puglia alla Spagna. Per dimostrare il suo sostegno Alessandro VI scomunicò anche il re di Napoli, indebolendo ancora di più la sua posizione, mentre Cesare, nominato capitano di guerra da Luigi, conquistava e saccheggiava Capua per suo conto.
Nel 1502, lasciata l’armata d’invasione francese, Cesare tornò ad amministrare quello che stava diventando il Principato di Romagna, riordinando i tribunali e gettando le basi per un sistema di tassazione e burocrazia più equo e giusto. Sotto la mani di un solo uomo forte, invece che di tanti signori che spadroneggiavano e si facevano la guerra tra loro, la regione conobbe un periodo di stabilità e giustizia.
Grazie a questa forza Cesare stava pensando ad estendere i suoi domini, annettendo anche i ducati di Camerino e Urbino, ma la sua accresciuta potenza – che riduceva sensibilmente l’anarchia a cui erano ormai abituati molti nobili – mise in allarme i suoi stessi capitani, guidati da Vittellozzo Vitelli.
Questi si riunirono presso il castello dei Cavalieri di Malta di Magione, nelle vicinanze del lago Trasimeno, dove ordirono una congiura contro di lui al fine di evitare, come dicevano, “d’essere uno a uno devorati dal dragone”. Dalle parole si passò ad i fatti e i traditori riunirono un’armata con cui sconfissero a Calmazzo le truppe borgiane, cacciandolo da Urbino.
Ci volle del tempo per organizzare la riscossa ma i congiurati, detti “la Lega dei Condottieri”, non trovarono appoggi politici esterni e Cesare, con l’aiuto di Firenze e della Francia, contando sulla neutralità di Venezia, armò un nuovo esercito che fece scendere a più miti consigli i ribelli, che accettarono un invito ad una tregua. Vitellozzo Vitelli, il duca di Gravina, Paolo Orsini e Oliverotto da Fermo furono invitati a Senigallia per concordare un accordo con il duca Valentino, ma nella notte del 31 dicembre 1502 furono tutti catturati e strangolati, ponendo sanguinosamente fine al loro tradimento con un altro tradimento.
In tal modo, eliminate cinicamente le mele marce e rafforzato la sua posizione, Cesare poté annettere Perugia e Siena, oltre che sconfiggere la famiglia Orsini, rivale del padre-Papa Alessandro, a cui conquistò la fortezza di Ceri in soli 38 giorni, sfruttando le innovative macchine da guerra progettate da Leonardo da Vinci, all’epoca messosi al servizio di Cesare come ingegnere militare.
È affascinante scoprire quanti grandi uomini del Rinascimento abbiano gravitato intorno ai Borgia in quel periodo, forse in ragione del loro progetto di fondare un nuovo e potente Stato nel centro Italia, sfruttando abilmente il potere militare di Cesare e l’autorità spirituale della Chiesa.
Questo sogno, che avrebbe creato un nuovo attore di rilievo nel panorama della penisola in un momento delicato come le Guerre d’Italia, fu stroncato dall’oscura morte del Pontefice Alessandro VI, forse avvelenato ad un banchetto all’età di 73 anni.
Sparito il suo protettore, Cesare non riuscì – forse anche lui era stato avvelenato – a manovrare il conclave per tener lontano i nemici della sua famiglia dal soglio pontificio. Dopo il brevissimo pontificato di Pio III, a lui favorevole, nell’ottobre del 1503 uscì eletto il cardinale Giuliano Della Rovere, esponente di un casato acerrimo nemico dei Borgia.
Il nuovo pontefice, che prese il nome di Giulio II, uomo austero, volitivo e poco avvezzo alle vie diplomatiche, tolse al duca il governo della Romagna e ne ordinò l’arresto e la reclusione in Castel Sant’Angelo.
La stella della sua famiglia tramontò con lui in quanto venne attuata un’opera di propaganda negativa a tutti i livelli che descrisse i Borgia come esempio di viltà, oscure trame e corruzione in tutta Europa. Forse c’era del vero in tutto ciò, ma forse c’era anche una grande paura di un loro possibile ritorno visto quello che erano riusciti a fare. La storia, si sa, viene scritta dai vincitori, e Giulio II fu un Papa potente e di successo, che proseguì nell’opera del rafforzamento dell’autorità della Chiesa, aprendo un nuovo capitolo delle Guerre d’Italia.
Cesare, invece, venne imprigionato e riuscì a fuggire due volte, prima a Napoli e poi in Navarra, a cui era legato per matrimonio. Lassù si mise al servizio del cognato, il sovrano Giovanni III d’Albret, cadendo in combattimento contro il ribelle conte di Lerin, nel 1507.
Seppellito in un grande sepolcro di marmo nella chiesa di Santa Maria di Viana, alla destra dell’altare maggiore, neanche da morto la sua memoria trovò pace. Poco tempo dopo l’Inquisizione dispose che i resti, ritenuti cosa indegna e sacrilega, venissero sepolti nel patio della medesima chiesa, in terra non consacrata in prossimità di una discarica di rifiuti, affinché fossero calpestati da uomini e animali.
Ci vollero più di quattro secoli perché quest’uomo ambizioso, raffinato e controverso, le cui fortune erano salite tanto in alto da destare l’invidia e la paura di tanti potenti, trovasse un minimo di giustizia. Nel 1953 le autorità di Viana recuperarono i resti e li posero in un’urna di pietra davanti alla porta principale della chiesa di Santa Maria, sotto una lapide marmorea, su cui è ancora scritto “Cesare Borgia, Generalissimo degli eserciti di Navarra e Pontifici, morto sui campi di Viana l’11 marzo 1507”.
Da allora la sua tomba è diventata meta di numerose e crescenti visite.
Alberto Massaiu
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