L’Italia non era stata più unita sotto un unico dominio dal 568 d.C., anno in cui i romani d’oriente non erano stati capaci di resistere all’invasione di quel popolo che avrebbe dato il nome alla Lombardia, i longobardi.
Da quel momento in poi la penisola non trovò mai più un’unità, incentivata dalla ricchezza, dalla litigiosità e dall’individualismo delle sue città, dalla politica papalina che puntava al classico divide et impera, ben consapevole che il suo potere sarebbe rimasto pesantemente intaccato dall’affermazione di un potente Regno d’Italia o peggio ancora, dopo la nascita del Sacro Romano Impero, da un sovrano germanico dotato di forza ed energia.
Per questo i pontefici soffiarono sempre sul fuoco della rivolta dei comuni italiani, in modo da ostacolare i disegni di Federico Barbarossa prima e del nipote Federico II Hohenstaufen, detto stupor mundi, che avevano in animo di unificare Germania e Italia in un formidabile dominio dove il Papa sarebbe tornato ad esercitare un ruolo meramente spirituale, come già avveniva a Bisanzio nei rapporti tra l’Imperatore e il Patriarca di Costantinopoli.
Tra il 1300 e il 1400, però, nuovi cambiamenti arrivarono in Europa e nella Penisola. Mentre il Sacro Romano Impero Germanico sprofondava nell’anarchia e nella debolezza dell’autorità centrale, altri Stati si rafforzavano, temprandosi con la guerra. Francia e Inghilterra avevano ingaggiato un conflitto che venne definito in seguito dei Cent’Anni (1337-1453), mentre i potentati cristiani di Spagna, come i regni di Castiglia-Leon e Aragona, stavano concludendo la reconquista, puntando ad espellere per sempre i signori musulmani dalla penisola iberica.
In Italia, invece, i processi di rafforzamento e unificazione statuali vennero ferocemente osteggiati. Per primi ci provarono i milanesi, che con la dinastia dei Visconti guidata dal duca Gian Galeazzo controllavano tutta la Lombardia, parte del Piemonte, del Veneto, dell’Emilia, Liguria, Svizzera, Umbria e Toscana. Alla morte di questi il suo dominio fu frammentato e divenne oggetto delle mire di espansione veneziane, che occuparono la cosiddetta Terra Firma in una serie di guerre costosissime che spesso non compensavano le acquisizioni fatte.
Nella prima metà del XV secolo la penisola divenne teatro di un gioco delle parti dove Venezia, Milano, Firenze, il Papa e Napoli combattevano e si alleavano tra loro, coinvolgendo gli altri piccoli e medi potentati del centro-nord in un valzer di tradimenti, trattati e colpi di mano che si concluse solo nel 1454, attraverso la Pace di Lodi.
Questo vertice, capolavoro diplomatico di Cosimo de Medici, mise fine alla conflittualità per la supremazia tra Milano e Venezia, garantendo la pace nell’Italia per circa quarant’anni, permettendo la piena fioritura del Rinascimento. Dall’altro lato della medaglia la “Politica dell’Equilibrio” orchestrata da questo grande personaggio sancì la fine di ogni possibilità che un potentato della penisola riuscisse ad unificare tutti gli altri, certo con guerra e le distruzioni in principio, ma garantendo poi una forza maggiore nel difendersi dalle invasioni straniere.
Da quel momento in Italia rimasero 5 medie potenze: la Repubblica di Venezia, il Ducato di Milano, lo Stato della Chiesa, la Repubblica di Firenze e il Regno di Napoli, tutte abbastanza forti da garantire se coalizzate la loro esistenza, ma più deboli di fronte ad un risoluto invasore capace di modificare questa precaria situazione alleandosi anche con solo uno di questi Stati, come puntualmente avvenne con Carlo VIII nel 1494.
Quest’ultimo aveva ereditato un paese unificato, ricco e all’apogeo del suo potere militare. Negli ultimi cinquant’anni i sovrani di Francia avevano ricacciato in mare gli inglesi dopo una sanguinosissima e brutale guerra, avevano messo in riga nobili e signori feudali, accentrato il potere a Parigi e annesso la Borgogna, che aveva approfittato del conflitto anglo-francese per ritagliarsi un piccolo impero che andava dall’Olanda fino alla Svizzera.
Carlo VII e Luigi XI, i monarchi che avevano preceduto Carlo VIII, per raggiungere questi obiettivi avevano creato l’embrione di uno Stato accentrato e nazionale, con tasse, leggi, amministrazione ed esercito che dipendeva dal re e non più dai nobili come un tempo. Il feudalesimo stava cedendo il passo alla monarchia assoluta e gli effetti furono dirompenti in tutto il continente.
Carlo salì al trono del padre a soli 13 anni e come tutti i giovani cercava onori, prestigio e gloria. Solo che, al contrario di tanti altri ragazzi della sua età, lui aveva alle spalle un esercito numeroso e un paese forte e unito. In più vantava, per parte materna, dei diritti sul trono di Napoli, uno degli Stati più ricchi della penisola italiana.
Infarcito di letture cavalleresche e non dotato di grande pragmatismo politico, il giovane monarca si vedeva come un novello cavaliere crociato e aveva in progetto di annettere quel regno italiano per utilizzarlo come base per una campagna di ampio respiro contro i turchi che appena qualche decennio prima avevano conquistato Costantinopoli, ponendo fine all’Impero Romano d’Oriente. Nei suoi disegni – permettetemi il termine – “napoleonici”, Carlo pensava di poter avere facilmente ragione dei musulmani, conquistare l’esotica e prestigiosa capitale orientale e farsi incoronare Imperatore Romano dal Papa.
Per ottenere tutto questo doveva calare in Italia e decise di farlo in grande stile, in modo da mettere bene in chiaro che la potenza francese non aveva rivali su tutto il continente ed era l’unica degna di guidare i popoli cristiani, coalizzati contro il nemico turco.
La sua campagna militare fu un successo e un insuccesso allo stesso tempo. Dimostrò infatti le divisioni politiche che indebolivano i ricchi Stati italiani, dotati potenzialmente di eserciti, denaro e fortezze per resistere alle invasioni, ma indecisi e poco risoluti di fronte a nemici determinati e con molti peli sullo stomaco.
Carlo fu in principio avvantaggiato proprio dalle ambizioni del più grande signore della penisola, il duca di Milano Ludovico il Moro, e della Repubblica di Venezia, che volevano rovesciare il re di Napoli Ferrante, a cui si unirono le forze nemiche dei Medici a Firenze e dei Borgia a Roma, che speravano nella calata francese per indebolire la loro leadership in vista di cambi di regime.
In pratica il monarca francese fu quasi invitato ad invadere l’Italia, con promesse di contribuzioni finanziarie per sostenere le spese della campagna. Carlo radunò una forza mai vista prima di circa 30.000 uomini tra fanti e cavalieri, oltre che il primo treno d’artiglierie da campagna, con cannoni mobili da utilizzare anche in battaglia e non solo per gli assedi.
La sua marcia risultò inarrestabile, con i duchi di Savoia – notoriamente filofrancesi – che lo accolsero positivamente fornendo basi d’appoggio, il cardinale Giuliano della Rovere – nemico del Papa Alessandro VI, al secolo Rodrigo Borgia, e futuro Papa col nome di Giulio II – e Ludovico il Moro che lo aizzarono contro Roma e Napoli e Firenze che, sotto la debole guida dell’inetto figlio di Lorenzo il Magnifico, si squagliò come neve al sole appena Carlo sbriciolò le mura di Fivizzano con la sua artiglieria, saccheggiando la città senza pietà.
“… e accostatosi a Fivizano, castello de’ fiorentini, dove gli condusse Gabriello Malaspina marchese di Fosdinuovo loro raccomandato, lo presono per forza e saccheggiorno, ammazzando tutti i soldati forestieri che vi erano dentro e molti degli abitatori: cosa nuova e di spavento grandissimo a Italia, già lungo tempo assuefatta a vedere guerre più presto belle di pompa e di apparati, e quasi simili a spettacoli, che pericolose e sanguinose”
Francesco Guicciardini, Storia d’Italia
Terrorizzato dal brutale fato di Fivizzano, Piero de Medici capitolò senza resistere, cedendo a Carlo le fortezze di Sarzanello, Sarzana e Pietrasanta, le città di Pisa e di Livorno e via libera per Firenze. A causa di questo atteggiamento vile, unito alle infuocate prediche anti-medicee del predicatore Girolamo Savonarola, Piero venne cacciato dai cittadini di Firenze che accolsero il monarca francese con un misto di timore e di indifferenza, visto che consideravano l’indipendenza di Napoli un affare non più di loro pertinenza.
A questo punto rimaneva Roma, ma Alessandro VI comprese che non poteva resistere da solo alla formidabile macchina da guerra francese, che predominava sul campo con la sua cavalleria pesante e la fanteria mercenaria svizzera – considerate le migliori in Europa – e nell’assedio con i potenti cannoni di bronzo, perciò capitolò a sua volta senza opporre resistenza, anzi accogliendo le truppe di Carlo nella Città Eterna e autorizzandolo a proseguire verso Napoli sotto la guida del figlio Cesare Borgia, al tempo cardinale.
Dopo un paio di altri massacri a Monte San Giovanni e a Tuscania, dove trucidò 1.500 abitanti che avevano osato sbarrargli le porte, il re francese occupò Napoli nel febbraio 1495. La velocità e la violenza della campagna lasciarono attoniti gli italiani. Specialmente i veneziani e Ludovico il Moro, che lo avevano sostenuto in odio al regno partenopeo, capirono che se Carlo non fosse stato fermato la penisola sarebbe presto diventata un’altra provincia della Francia.
Per questo Ludovico, Venezia, il Papa Alessandro VI Borgia, Ferdinando II d’Aragona (anche lui con pretese dinastiche su Napoli), Massimiliano I di Germania ed Enrico VIII di Inghilterra si unirono in una potente – perlomeno sulla carta – alleanza antifrancese, detta Lega Santa.
La lega ingaggiò un condottiero veterano, Francesco II Gonzaga, marchese di Mantova, per raccogliere un esercito ed espellere i francesi dalla penisola. Questa armata fu adunata principalmente da Venezia, a cui si unirono contingenti milanesi e di altre città del nord. Allo stesso tempo la flotta francese fu distrutta a Rapallo dalle navi genovesi – legate a Milano, ora nemica e non più alleata dei transalpini, costringendo Carlo ad un rientro in patria via terra e non via mare.
Il re di Francia era scioccato da come quella che era sembrata una passeggiata trionfale si fosse tramutata in un incubo politico di dimensioni continentali. Con l’esercito flagellato da un epidemia di sifilide – detta all’epoca mal francese – contratta a Napoli e il rischio di un’invasione da più parti del suo paese, Carlo mosse a nord e si trovò la strada sbarrata a Fornovo.
Qui si svolse, sotto una pioggia torrenziale, una caotica battaglia il cui esito incerto sul campo aprì una diatriba tra gli storici dall’una e dall’altra parte delle Alpi su chi avesse trionfato. In verità la questione è più sfaccettata.
Fornovo fu uno scontro che si può leggere a più strati. Sul piano tattico i francesi avevano ottenuto una vittoria di misura, perché erano sopravvissuti senza andare in rotta, infliggendo dolorose perdite agli alleati – anche perché le loro truppe, al contrario della consuetudine italiana del tempo, non facevano prigionieri e trucidavano gli uomini d’arme che si arrendevano – e riuscendo infine a sganciarsi portandosi dietro perfino i cannoni.
A livello di grande strategia, invece, la vittoria andrebbe assegnata agli italiani, che ottennero con successo di cacciare gli invasori fuori dalle loro terre, facendogli riparare nella sempre amica Savoia flagellati dalle malattie e a corto di denaro per pagare i mercenari, che rischiarono di ammutinarsi.
Purtroppo il danno operò al terzo e più importante livello, quello politico. L’iniziale facilità della campagna, che aveva fatto capitolare ben tre dei cinque Stati italiani che reggevano la politica dell’equilibrio, oltre che il mancato successo – dovuto alla politica irresoluta, attendista e fondamentalmente poco coesa – delle forze congiunte di Milano e Venezia, rese palese le divisioni intestine e la reciproca poco fiducia che regnava tra i ricchi Stati italiani.
I più audaci e astuti capi stranieri – non certo Carlo VIII, che in questo si era dimostrato poco accorto – compresero che potevano sfruttare queste debolezze per conquistare nuove terre e utilizzare gli eserciti professionali che un tempo erano serviti per unificare i loro paesi e che ora rischiavano di diventare solo un costo.
Tra il 1494 e il 1495 si gettarono le basi per i successivi sessant’anni di guerre che insanguinarono la penisola e videro la scomparsa di Milano e Napoli come Stati indipendenti, la supremazia straniera sull’Italia – tranne che a Venezia e, in parte, nel ducato di Savoia, a Firenze e a Roma – oltre che l’ascesa della Spagna e della dinastia asburgica come superpotenza continentale e mondiale, sotto i regni di Carlo V e Filippo II.
Alberto Massaiu
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