Il mistero della tomba di Mégas Aléxandros, alla storia Alexandros III di Macedonia, figlio di Philippos II, è una chimera che è stata oggetto di una vera e propria ossessione per studiosi, letterati, archeologi ma anche mitomani, avventurieri, esoteristi e cacciatori di tesori di ogni tipo.
Se ci pensiamo bene, Alexandros fu il più famoso uomo dell’antichità. Per le sue straordinarie imprese fu considerato un dio e gli furono dedicati templi, culti, statue, festività per tutto il periodo classico fino all’avvento del Cristianesimo. Il luogo della sua sepoltura in Alessandria, città da lui stesso fondata in Egitto, fu meta di pellegrinaggio per i grandi del passato tra cui Caesar, Augustus, Hadrianus, Septimius Severus e molti altri.
Eppure, quasi da un giorno all’altro, alla fine del IV secolo d.C. ogni notizia del “Soma” di Alexandros pare scomparire di colpo, crollando in un oscuro e tragico silenzio. Ma la sua fama e nomea accese nei secoli successivi la curiosità – e l’avidità – di legioni di uomini che, con mezzi più o meno leciti, tentarono in ogni modo di individuare i resti del luogo dell’ultimo riposo – e magari il corpo! – del grande re-condottiero. Un sognatore che, nel bene e nel male, ad appena 33 anni aveva conquistato tutto quello che all’epoca era considerato il mondo conosciuto, dominando dalla sua nuova capitale di Babilonia un paese che annoverava cento e più nazioni dal fiume Danubio all’Indo, dall’Egitto all’Hindukush.
Questa che andrò a ripercorrere è la lunga storia del corpo di Alexandros dopo la sua morte. Un’epopea tanto ricca di avvenimenti quanto la sua straordinaria vita.
Tutto partì a Babilonia. La morte del sovrano – altro fatto misterioso e controverso che avrà di sicuro un futuro spazio in questo blog – al culmine della sua gloria colpì come un fulmine a ciel sereno il mondo.
Il guerriero indomito con dozzine di ferite subite in battaglia solo sul petto e mai sulla schiena, che aveva patito in prima persona ogni sofferenza con i suoi soldati nelle migliaia di chilometri percorsi nella sua trionfale marcia di conquista iniziata nel 334 sul Granico, che aveva passato indenne diversi tentativi di omicidio, le febbri insidiose dell’India, il mortale deserto della Gedrosia dove i suoi soldati erano caduti come mosche per il caldo e la sete, perì per un male sconosciuto nel breve volgere di pochi giorni.
Che sia stato per avvelenamento, stravizi, bevute eccessive, una malattia contratta nel lungo viaggio di ritorno, spossamento, comunque Alexandros scomparve, lasciando un impero immane all’ambizione dei suoi luogotenenti, che iniziarono fin da subito quel periodo di crisi e conflitti per la sua eredità che passò alla storia come “Polemoi ton Diadochon” o “Guerre dei Successori” in cui il sangue stesso di Alexandros – tra cui la madre Olympias, la moglie Roxane e l’unico erede Alexandros IV – fu rapidamente e cinicamente spazzato via dall’ambizione di coloro che un tempo erano stati i suoi hetairoi, compagni di battaglia e fedeli comandanti.
Tale fu la loro foga fin dai primi momenti – e se fossimo malpensanti va detto che Alexandros morente non aiutò, visto che molte cronache affermano che alla domanda diretta dei compagni su chi dovesse succedergli egli rispose: “Il più forte” – che il corpo del re morto fu lasciato nella calura estiva per giorni, mentre le discussioni sempre più animate e i tanti rancori e invidie nascosti fino a quel momento dall’ingombrante figura del condottiero visionario si fecero sempre più accese e foriere di tempesta.
Quando un accordo fu parzialmente trovato in una reggenza affidata a Perdikkas, si pensò a salvaguardare il corpo. Grande fu la sorpresa, dicono le fonti, quando i generali e amici di Alexandros trovarono il suo corpo incorrotto nonostante il clima torrido di Babilonia.
Per non rischiare oltre la loro buona sorte, subito venne disposta la sua mummificazione e iniziarono ulteriori discussioni su dove il suo corpo avrebbe dovuto riposare. Babilonia, ovviamente, per quanto nuovo centro politico e amministrativo dell’impero, era fuori discussione. Troppo barbara per i macedoni, che non condividevano le idee ecumeniche di fusione culturale del loro defunto amico.
Si pensò allora ad Aegae, necropoli reale dei dinasti di Macedonia, sita non lontana dall’antica – e ormai piccola e periferica – capitale di Pella. Il viaggio, però, sarebbe stato il più lungo mai visto prima per un corteo funebre. Quasi 3.000 chilometri di strade e carovaniere per i fiumi Tigri ed Eufrate, la Siria, la Cilicia con i suoi passi montani, l’Anatolia interna, la costa ionica, l’Ellesponto, la Tracia e infine la Macedonia. Oppure un rischioso – a causa delle insidie marine – viaggio per mare dalla Siria o dalla Fenicia attraverso Cipro, Rodi, le poleis della Ionia e poi l’ultimo tratto per terra una volta giunti sul suolo europeo.
Perdikkas ci mise due anni a progettare il tutto. Innanzitutto realizzò un carro mai visto prima. Lo descrive così lo storico Diodoros Sikeliotes tre secoli dopo, rifacendosi a fonti dell’epoca:
“Innanzitutto fu realizzato un sarcofago in lamina d’oro martellato a misura del corpo di Alexandros che vi venne deposto e sommerso con grande abbondanza di spezie per conservarlo e profumarlo. Sopra vi fu posto il coperchio pure d’oro massiccio perfettamente adattato all’orlo del sarcofago. Sul coperchio venne deposto un drappo di porpora ricamato d’oro e su questo la sua armatura […] il carro che doveva portarlo fu dotato di una volta d’oro rivestita di scaglie. Attorno alla base c’era una cornice pure d’oro adornata di teste di ariete dalle quali pendevano anelli d’oro che reggevano un festone a vivaci colori. Alle estremità c’erano delle nappe di rete da cui pendevano delle campane, di modo che quando il carro si muoveva il loro suono potesse essere udito da grande distanza. In ogni angolo della volta da ogni parte c’era una vittoria d’oro che reggeva un trofeo. La volta era poi sorretta da un colonnato in stile ionico. All’interno del colonnato c’era una rete d’oro […] dalla quale pendevano quattro quadri decorati, congiunti l’uno all’altro in sequenza, e ognuno delle dimensioni del lato in cui si trovava. Su una di queste tavole era rappresentato un carro decorato con ornamenti in rilievo e sopra c’era Alexandros, con in mano un magnifico scettro. Intorno al re c’erano gruppi di armati, uno di macedoni, un secondo di persiani […] della guardia del corpo. Il secondo pannello mostrava degli elefanti bardati da guerra, guidati dai loro mahout indiani, e dietro truppe macedoni in pieno assetto e con il loro equipaggiamento al seguito. Nel terzo pannello si vedevano reparti di cavalleria in formazione di battaglia. Nel quarto pannello era rappresentata una squadra navale in assetto da combattimento. Accanto all’ingresso della cella che conteneva il sarcofago c’erano due leoni […] inoltre sulle colonne c’erano dei racemi di acanto che si estendevano fra la base e il capitello. Alla sommità di questa costruzione, in piena aria, c’era uno stendardo di porpora che portava come stemma una corona di olivo in oro di grande dimensione, che brillava al sole con così grande splendore che si poteva vedere lampeggiare da grande distanza. Il carro aveva due assi su cui giravano quattro ruote persiane con i mozzi e i raggi dorati […] le parti sporgenti degli assi erano a forma di teste di leone che tenevano tra i denti dei ferri di lancia. Al centro ognuno degli assi aveva un ammortizzatore piazzato in modo che anche su terreno accidentato il feretro non subisse contraccolpi. C’erano quattro stanghe e, ad ognuna di esse, erano aggiogate quattro mute di quattro muli ciascuna, in tutto sessantaquattro selezionati accuratamente per la loro forza e dimensioni. Ognuno aveva una corona dorata attorno al capo, due campanelle d’oro ai lati della testa ed un collare ornato di pietre preziose”
Diodoros Sikeliotes, I secolo a.C.
Perdikkas fu l’unico che, per i due anni che seguirono la morte del grande sovrano, tentò di portare avanti una reggenza in nome dell’infante reale Alexandros IV. Di ben diverso avviso erano gli altri hetairoi, primo tra tutti il più astuto e pratico tra loro: Ptolemaios.
Egli si era fatto assegnare come governatorato una porzione a prima vista meno estesa e prestigiosa – dal punto di vista greco, s’intende – del grande impero: l’Egitto. Questa terra era però antica, ricchissima sia per la sua fiorente agricoltura che per i commerci e collegata al mondo Mediterraneo orientale da una nuova città che avrebbe vissuto un’immensa fortuna nei secoli successivi proprio grazie all’opera di Ptolemaios e dei suoi primi successori: Alessandria.
In più, aspetto da non sottovalutare, vantava dei confini naturali facili da difendere. A sud e ad ovest vi erano deserti e popolazioni non pericolose come nubiani e libici, propensi anzi a servire come mercenarie nelle forze ausiliarie della sua casata. A nord il mare, facilmente sorvegliato dalla potente marina tolemaica. Una seria invasione poteva giungere solo da est, ma avrebbe dovuto attraversare prima il deserto del Sinai e poi gli insidiosi e insalubri acquitrini del grande fiume Nilo. Insomma una porta facile da proteggere rispetto ad altre porzioni dei rivali di Ptolemaios, che avevano tutti confini aperti a facili incursioni da ogni lato.
Dalla sua roccaforte l’ex compagno e amico di Alexandros covava l’ambizione di ritagliarsi un regno tutto suo e ben presto il suo esempio verrà imitato da tutti gli altri colleghi ed ex compagni di avventure.
Tornando al corpo di Alexandros, questo era già diventato una vera e propria reliquia dotata di un immenso potere politico da spendere per chiunque ne fosse il detentore. Ptolemaios sfruttò il fatto che Perdikkas, preso dalle mille problematiche legate al suo disperato tentativo di tenere uniti i pezzi della titanica opera dell’amico defunto, aveva affidato a dei suoi ufficiali il trasporto in Macedonia.
Nel 321 intercettò in Siria il carro che trasportava la salma del re macedone e offrì ai suoi guardiani una scelta semplice: accettare il suo denaro e consegnargli il corpo di Alexandros oppure affrontare le punte delle sarisse del suo esercito. Inutile dire che una grossa mazzetta passò di mano e il sarcofago d’oro fu velocemente trasportato in Egitto, dove venne collocato nell’antica e prestigiosa capitale Menfi.
Un furioso Perdikkas radunò una possente armata e marciò in Egitto. Qui, però, la scelta strategica di Ptolemaios si rivelò vincente. Presso Pelusion, nel delta orientale del Nilo, le sue superiori forze furono bloccate in una situazione di stallo dalle abili mosse del rivale, che seppe sfruttare al meglio il presidio di ponti e guadi per annullare la superiorità numerica e qualitativa dei veterani del reggente.
Esasperati da una situazione che sembrava senza via d’uscita, i generali di Perdikkas tra cui Seleukos, futuro fondatore della dinastia seleucide, lo assassinarono e vennero a patti con Ptolemaios.
A questo punto le guerre proseguirono e, nel 306 a.C. il più forte pretendente al trono imperiale, Antigonos, assunse il titolo di basileus, ovvero di re. Ptolemaios in risposta fece lo stesso in Egitto, Kassandros in Macedonia (era stato lui a sterminare tutti i familiari sopravvissuti di Alexandros compreso l’ormai adolescente Alexandros IV nel 311), Lysimakos in Tracia e Seleukos in Persia.
Il conflitto tra di loro raggiunse il suo acme nella battaglia di Ipso, in cui tutti i satrapai – governatori – separatisti si coalizzarono contro Antigonos, ultimo di loro a voler recuperare il sogno di Perdikkas di un unico e possente impero che ricalcasse quello di Alexandros.
Nel 301 a.C. gli 80.000 uomini di Antigonos e del figlio Demetrios, soprannominato Poliorketes, ovvero “assediatore di città”, furono sconfitti dagli eserciti collegati di Ptolemaios, Kassandros, Lysimakos e Seleukos, mettendo la parola fine al tentativo del primo di raggiungere il suo ambizioso sogno.
Eliminato lui, che perì in battaglia, Ptolemaios poté tornare ai suoi affari in Egitto senza temere più grossi pericoli vista la sua politica di fare da “ago della bilancia” tra tutti i compagni di Alexandros sopravvissuti. Un po’ come fece Lorenzo de Medici con la “Politica dell’Equilibrio” seguita alla Pace di Lodi del 1454, o la Gran Bretagna per tutto il XVIII e XIX secolo, Ptolemaios combatté e brigò per fare in modo che nessuno dei suoi ex amici diventasse troppo potente, in modo che lo status quo di potere tra i Regni Successori permanesse invariato, senza troppe scosse.
Sistemata la politica estera, era tempo di fortificare la sua posizione.
Ptolemaios, oltre che buon comandante e abile uomo politico, fu un genio della comunicazione ante litteram. Un vero precursore dei maestri del marketing contemporanei. Il suo obiettivo era quello di legare indissolubilmente la sua figura con quella dell’ormai immortale Alexandros, per utilizzarlo come strumento di legittimazione e prestigio in tutto il mondo di allora.
Innanzitutto trasferì il corpo mummificato dell’amico da Menfi, città troppo lontana dal nuovo cuore pulsante dell’Egitto mediterraneo, ad Alessandria. Questa città, voluta da colui che ora vi veniva inconsapevolmente seppellito, doveva diventare secondo Ptolemaios un centro di cultura, potere e sfarzo come mai si era visto fino ad allora.
Fin dai primi anni il nuovo sovrano operò su due fronti: da un lato associò al suo titolo greco di basileus quello di pharaoh – ovvero faraone – caro agli egizi autoctoni, in questo prendendo spunto proprio dall’esempio di Alexandros, che aveva viaggiato fino all’oasi di Siwa per esservi proclamato figlio del dio del Sole Amun-Ra (identificato come Zeus dai greci) e quindi legittimo pharaoh dell’Alto e del Basso Egitto; dall’altro iniziò a spargere la voce in ogni modo che lui era stato il prediletto tra tutti i compagni di Alexandros, assecondando anche una storia – quasi per certo del tutto falsa – di essere in verità figlio naturale di Philippos II e quindi fratellastro di Alexandros.
Sempre su questa falsariga, assecondò la diffusione di una leggenda locale che affermava che l’ultimo pharaoh autoctono, Nḫt-Ḥr-(n)-Ḥbyt o Nectanebo II, che era scomparso dalle cronache nel 343 a.C. dopo l’ultima e definitiva invasione persiana del suo paese, fosse in realtà scappato esule fino alla Macedonia dove, grazie ad artifici magici, aveva sedotto la regina Olympias – madre di Alexandros – e con lei concepito quest’ultimo.
In tal modo, che faceva passare Philippos come un cornuto, Ptolemaios riuscì a ingraziarsi ancor di più i sudditi egiziani, stabilendo una connessione diretta con il loro ultimo sovrano indigeno e la nuova dinastia macedone. Il buon Ptolemaios aveva lo stomaco di ferro e la mente fredda come il ghiaccio per passare sopra a tutti questi giri di false storie e dicerie, ma il risultato pagò ampiamente i suoi sforzi.
I suoi eredi più saggi, abili e lungimiranti potenziarono la tradizione. Ptolemaios II Philadelphos aggiunse al già divinizzato Alexandros anche quella del padre e della madre Berenike con il titolo di Theoi Soteres o “Divinità Salvatrici”, a cui dedicò una vera e propria festa solenne che cadeva ogni quattro anni come i Giochi Olimpici, chiamati per l’appunto Ptolemaia o “Giochi Tolemaici”.
Nella parata delle Ptolemaia sfilavano soldati in alta uniforme, carri adornati di oro, gioielli e oggetti preziosi, statue degli dei crisoelefantine o di marmo, rivestite con preziosi drappi di velluto multicolore. Tra quelle di Zeus e Dionysos svettavano sempre quelle di Alexandros e Ptolemaios Soter, vicini tra loro e cinti di porpora e diademi d’oro, trainati da coppie di elefanti africani o indiani.
Ma fu con Ptolemaio IV Philopator che, nel 215 a.C., venne realizzato il monumento che per i successivi sei secoli verrà conosciuto come il Soma – traducibile letteralmente come “il Corpo”. Questo divenne parte della necropoli regale dei dinasti tolomei, in cui tutti loro si strinsero intorno al sepolcro del grande condottiero, quasi fosse il vero capostipite della dinastia.
Il Soma fu con buona probabilità un incontro sincretico tra le antiche, semplici e severe tombe a tumulo della tradizione reale macedone (come il ricchissimo sepolcro di Philippos II, riscoperto dall’archeologo Manolis Andronikos nel 1977) e i monumenti funebri come la tomba di Mausolos (così bella che la sua fama superò i millenni ed è perfino rimasta nel dire comune, in quanto chiamiamo ancora ora “mausolei” gli edifici più belli e sfarzosi della storia).
Un’ipotesi interessante è quella che associa i monumenti funebri di imperatori romani quali Augustus e Hadrianus a quello che videro ad Alessandria. Anche la tomba del primo imperatore di Roma era uno stupendo edificio a forma di tumulo, ma decorato con marmi preziosi, statue e fregi di grande bellezza.
Stessa cosa fece il più filo-elleno tra gli imperatori, Hadrianus, e il suo mausoleo – ecco, torna il nome, vedete? – è ancora apprezzabile, riattato a fortezza pontificia, nelle fattezze di Castel Sant’Angelo.
Ad ogni modo il Soma, per quanto prestigioso, decadde con la dinastia sul cui destino aveva forgiato la propria fortuna. Ptolemaios Alexandros X, in un Egitto in piena decadenza politica, nell’89 a.C. decise di fondere il sarcofago d’oro del grande condottiero per sostituirlo con uno più economico, descritto in greco col termine yaline, tentato di tradurre dagli studiosi successivi in vari modi quali alabastro, vetro o cristallo di rocca.
L’azione misera, che portò alla distruzione di un’opera d’arte che ad oggi avrebbe un valore storico mille e mille volte maggiore rispetta a quello schiettamente economico – di sicuro parecchio alto comunque, vista la quantità di metallo nobile utilizzata e le dimensioni di cassa e coperchio – fu giustificata dal gretto motivo di pagare i propri mercenari nell’ennesima guerra civile tra parenti.
Il gesto non gli portò fortuna e l’anno dopo perse il trono e probabilmente anche la vita per opera del fratello maggiore, Ptolomaios IX, che per buona misura mise in atto un’opera di damnatio memoriae verso il sangue del suo sangue in una spirale di abiezione e decadenza sempre più tragica.
La cattiva fama dei Ptolemaioi degli ultimi tempi era tale che, quando Augustus nel 30 a.C. visitò Alessandria e volle tributare omaggio alla salma del grande condottiero (sopra cui depose una corona d’oro), egli gelò i cortigiani che erano pronti a mostrargli anche le tombe dei dinasti tolemaici, dichiarando: “Volevo vedere un re, non dei morti”.
Fu forse lui che, probabilmente come opera di propaganda, decise di far rimuovere tutte le salme della casata reale macedone, mantenendo nel sepolcro il solo Alexandros, in modo da non lasciare nessuna traccia di possibile revanscismo in un territorio che desiderava trasformare nel suo patrimonio privato.
Ad ogni modo, per tutti gli anni di pace e prosperità dei primi due secoli dell’impero, il Soma e tutta Alessandria prosperarono e la tomba del grande sovrano divenne meta di pellegrinaggi di intellettuali e uomini di potere, oltre che di semplici persone incuriosite dal mito del più celebre conquistatore del mondo, paragonato da molti ad un dio.
L’oblio giunse nel breve volgere di un secolo e mezzo. La leggenda vuole che Septimius Severus, forse consapevole della crisi politica e dell’instabilità di quel periodo che divenne tristemente famoso con il nome di “Crisi del III° secolo”, decise di sigillare la tomba al pubblico, ponendo al suo interno anche tutta una serie di libri e documenti relativi ad essa stessa. Misura protettiva o forse c’era dell’altro?
Ad ogni modo nei decenni successivi le cronache di viaggiatori giunti nella città citano sempre meno l’edificio – va detto che molte di queste testimonianze ci sono giunte incomplete – e nel 390 d.C. Libanius, intellettuale pagano in un’Alessandria devastata dai conflitti religiosi portati avanti dagli zeloti cristiani sempre più intolleranti, lamenta che: “Il corpo di Alexandros giace abbandonato”, forse alludendo che non si svolgevano più le antiche celebrazioni pubbliche un tempo officiate in suo onore.
Il collasso vero e proprio giunse però con i decreti di Theodosios imperatore “Nemo se hostiis polluat” del febbraio 391 e soprattutto il “Gentilicia constiterit superstitione” del novembre del 392. Con questi veniva messo al bando ogni forma di sacrificio legato agli antichi culti, persino in forma privata (compresi lares e penates domestici), con la proibizione di avvicinarsi a statue e santuari con fine religioso. Tali atti vennero giudicati come crimen maiestatis o atti di lesa maestà, punibili con la perdita dei diritti civili, pesanti multe e, in caso di persistenza, perfino la morte.
Fu in questo clima di terrore che il vescovo di Alessandria, Theophilos, promosse la distruzione dei templi della città – compreso il celebre Serapeion – o la loro conversione in chiese cristiane. Nei tumulti che seguirono tra pagani e cristiani le distruzioni di opere d’arte e monumenti del passato – oltre che di conoscenza, in quanto forse fu in questo momento che vennero perduti molti inestimabili documenti della grande biblioteca – si perde la memoria della tomba di Alexandros.
Nel 400, in spregio alla vanità dei pagani che celebravano la memoria di uomini ormai scomparsi invece che quello che lui considerava l’Uno e l’Eterno, l’arcivescovo di Costantinopoli Ioannes Chrysostomos domandava: “Dov’è, dimmi, la tomba di Alexandros? Mostramela, e dimmi in che giorno morì!”.
Questa è stata interpretata da molti studiosi come la prova che, in quell’anno, il Soma non esisteva più e in pochi ne conservavano la memoria. Da qui tre possibili ipotesi:
- Sia la tomba che il corpo di Alexandros furono distrutti dai cristiani in quell’epoca di tumulti, in modo che non potesse più essere oggetto di venerazione e centro di resistenza per i pagani
- La tomba venne distrutta ma il corpo, in qualche maniera, venne messo in salvo dai pagani. Paghi di aver azzerato la minaccia costituita dall’edificio, i cristiani lasciarono passare in sordina la scomparsa della salma, che comunque si eclissa nelle tenebre della storia e della leggenda
- La tomba venne riconvertita come altri monumenti civici quali il tempio di Dionysos e il Caesareum e il corpo di Alexandros nascosto, distrutto o spacciato per qualcun altro, in attesa che della sua memoria si perdesse ogni traccia.
Quest’ultima ipotesi apre all’ultimo tassello di questa affascinante ricerca. Nel 828 d.C., quando Alessandria era ormai da due secoli una città musulmana, dei mercanti veneziani trafugarono le reliquie dell’evangelista Marqos – per noi Marco – per poi portarle in quella che divenne la loro chiesa più importante, ovvero la splendida San Marco a Venezia.
Ecco, secondo alcuni studiosi la chiesa dedicata a San Marco ad Alessandria – da dove prelevarono in segreto il corpo – era il Soma riconvertito in edificio cristiano già da oltre quattro secoli. Il corpo trafugato e conservato fino ad oggi nella città lagunare, quindi, potrebbe non appartenere all’evangelista, ma al leggendario Alexandros.
A favore di questa teoria sta il fatto che pare che il corpo recuperato dai mercanti fosse mummificato e, soprattutto, dotato di testa che invece, secondo la tradizione cristiana, era stata spiccata dal corpo del martire alessandrino.
Ad ogni modo, qualsiasi sia stata la vicenda, per tutti i secoli successivi, e soprattutto per buona perte del tardo settecento e tutto l’ottocento, fino ai primi decenni del XX secolo, furono un numero incalcolabile le persone che, con teorie più o meno solide, cercarono in lungo e in largo la tomba del grande re-condottiero. Una ricerca piena di fascino che forse sarà oggetto di un futuro articolo.
Oggi, a distanza di più di duemila anni rispetto alla morte di Alexandros il Grande, in pochi si domandano dove è finito il suo corpo. Eppure è una storia che merita di essere ricordata, perché è perfetta espressione di quanto persino i più grandi uomini, capaci di cambiare il loro mondo e influenzare e affascinare così tanti tra i loro simili nei secoli a venire, possono cadere comunque nell’oblio e rischiare di scomparire completamente nelle pieghe del tempo.
Alberto Massaiu
P.S. per chi desidera approfondire il tema consiglio l’ottimo libro di Valerio Massimo Manfredi intitolato: “La Tomba di Alessandro. L’enigma” e i due brevi documentari in lingua inglese curati dal canale Youtube “Kings and Generals”, che vi segnalo nei link qui in basso.
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