Viviamo in un mondo che si dice sempre più secolare, lontano dalle religioni. Eppure atei e agnostici sono solo la terza fede in ordine di popolazione globale (poco più di 900 milioni di persone, ad ogni modo non proprio quattro gatti), mentre le due top player sono il Cristianesimo, che nelle sue varie correnti e versioni totalizza quasi due miliardi di affiliati e subito dopo l’Islamismo, che ne conta un miliardo e mezzo.
Ora, anche contando i cristiani e i musulmani che lo sono solo di nome e praticano poco o niente, comunque il peso di questi due colossi esercita un forte ascendente sulla vita di gran parte del genere umano, perciò ritengo giusto indagarne le origini, per comprendere un po’ meglio come tutto è iniziato e sul perché, cose avvenute secoli fa, determinano ancora i pensieri e le azioni dell’essere umano contemporaneo.
Nel precedente articolo abbiamo avuto come protagonista Costantino il Grande, alle prese con il riordino della religione cristiana, mentre oggi andremo a vedere il profeta Muhammad e i suoi primissimi successori, cercando di capire come è stato possibile che questa religione si sia estesa a macchia d’olio travolgendo i potenti e antichi imperi della Persia e di Costantinopoli, arrivando in poco più di un secolo dall’Oceano Atlantico a quello Indiano.
Innanzitutto chiariamo un po’ di termini e nomi: l’Islām, credo fondato agli inizi del VII secolo nella penisola araba ma che ora conta più fedeli tra popoli non arabi (il maggior numero si trova in Indonesia, con oltre 200 milioni di musulmani), è traducibile con “sottomissione, abbandono, consegna totale di sé”, collegato anche alla parola salām , che vuol dire “pace”. Quindi, nella concezione più comune musulmana, il credere è essenzialmente uno stato di pace e sicurezza con Dio, attraverso la sottomissione e la resa totale del fedele a quest’ultimo.
Stessa cosa per il suo profeta e fondatore, Maometto, il cui nome che pronunciamo è una volgarizzazione di età medievale del nome semitico Muḥammad. L’origine di questo adattamento è rintracciabile nell’opera del monaco e santo cristiano-siriano Ioannis Damaskinos (Giovanni Damasceno), che, nella sua perì hairéseōn – sulle eresie – della prima metà del VIII secolo, lo cita come Mamed o Moameth, termine probabilmente ripreso dagli occidentali in seguito.
Ulteriore punto da chiarire su questa figura: per i musulmani egli è certamente il profeta per eccellenza, ma anche l’ultimo dei tanti che, in una lunga tradizione che affonda nella tradizione cristiana ed ebraica, è stato chiamato dall’angelo Gavriʼel (quello che ha annunciato anche la nascita di Giovanni il Battista e di Gesù) e incaricato da Dio stesso per portare la sua ultima e definitiva rivelazione all’umanità.
Detto questo, in modo da avere una prima infarinatura su quello che andremo a vedere, cerchiamo ora di capire la nascita dell’Islām, immergendoci nell’Arabia dell’epoca, con i suoi conflitti tribali e le rivalità tra ricchi mercanti.
Il nome completo di Muhammad era Abū l-Qāsim Muḥammad ibn ʿAbd Allāh ibn ʿAbd al-Muṭṭalib al-Hāshimī, nel pieno rispetto della tradizione araba di indicare tutti i propri ascendenti (ibn in arabo significa “figlio di”). Ergo, se volessimo tradurlo in italiano, il suo nome completo sarebbe: Abū l-Qāsim Muḥammad, figlio di ʿAbd Allāh (padre di Muhammad), figlio di ʿAbd al-Muṭṭalib al-Hāshimī (nonno di Muhammad). La sua data di nascita è, come per Gesù Cristo, sconosciuta, ma la tradizione la individua tra il 20 e il 26 aprile dell’anno 570, nella città della Mecca. La data della morte, sempre per convenzione (non tutti i musulmani vi concordano) è l’8 giugno del 632, nella città di Medina, dove venne sepolto all’interno della casa dove viveva.
La sua era una famiglia di mercanti di un certo rilievo, sotto la giurisdizione della potente e numerosa tribù dei banū quraysh. Figlio unico e orfano fin dalla più tenera età di entrambi i genitori, fu affidato al nonno e poi allo zio paterno, che divennero i suoi tutori. Quest’ultimo, Abū Ṭālib, era mercante e si portò il nipote nei suoi viaggi in Siria e Yemen, dove il giovane Muhammad (aveva tra i 9 e i 12 anni) incontrò sia ebrei che cristiani e, secondo una tradizione biografica dell’epoca, un monaco cristiano della Siria, tale Bahīra, riconobbe in un neo fra le sue scapole il segno del futuro carisma profetico.
Ad ogni modo il suo destino era ancora ben lontano e il giovane si trovava in ristrettezze economiche, tanto da dover accettare, su suggerimento dello zio, il ruolo di agente per la ricca e colta vedova Khadīja. Khadīja aveva 41 anni nel 595 e Muhammad 25, ma per amore o convenienza i due convolarono a nozze. Fatto sta che il legame tra di loro, sincero o meno all’inizio, diventò sempre più forte e quando diversi anni dopo quest’ultimo iniziò a predicare, la moglie fu la prima a credere in lui, sostenendolo con forza e convinzione fino alla morte, nel 619.
Fu nel 610 circa, quando Muhammad era ormai un commerciante agiato, ben inserito nella società e con la fama di grande onestà, che venne colpito da una rivelazione che cambiò la sua vita radicalmente. Egli aveva all’incirca quarant’anni e una notte, durante il mese del ramaḍān (ancora oggi periodo di digiuno per i musulmani, proprio in ricordo dell’incontro tra l’angelo e il profeta) Jabrāʾīl – il Gabriele cristiano – si rivolse a lui con queste parole: “Leggi, in nome del tuo Signore, che ha creato l’uomo da un grumo di sangue! Leggi! Che il tuo Signore è il Generosissimo, Colui che ha insegnato l’uso del calamo, ha insegnato all’uomo quello che non sapeva”.
Muhammad disse che a quella vista pensò di essere impazzito, di esser finito preda di un jinn – uno spirito, la versione araba di gnomi, folletti o creature fatate – del deserto e che perciò fuggì a perdifiato. Voltatosi per tener d’occhio il suo inseguitore, aveva visto quella creatura che con ali immense copriva l’intero orizzonte, mentre gli urlava con voce tonante che egli era stato prescelto per essere rasūl – messaggero – del Signore.
Furono l’anziana moglie e il cugino di lei Waraqa ibn Nawfal, probabilmente un cristiano, a fornirgli una lettura alternativa a quanto accaduto, spingendolo ad iniziare a predicare il nuovo messaggio, che ben presto diventerà una vera e propria fede.
Quello che il novello profeta affermava non attecchì sui suoi compatrioti e trovò una profonda opposizione proprio tra i membri della sua stessa tribù. La gente della Mecca rifiutò di riconoscere in lui l’araldo di una nuova religione, tranne un ristretto numero che in seguito venne ricordato come i dieci benedetti o al-ʿashara al-mubashshara, capeggiati da quello che diventerà il primo khalīfa dell’Islām, Abū Bakr. Per il resto i suoi primi seguaci erano parenti, giovani figli di mercanti e stranieri, mentre l’élite e il popolo meccano derisero e infine scacciarono i musulmani, quando Muhammad condannò l’idolatria e il politeismo, entrambi molto fiorenti nella multiculturale e multirazziale città araba.
Al loro capo stavano i leader dei quraysh, il suo stesso clan, che era monopolista dei traffici di fedeli e guardiani della Kaʿba, un’antica costruzione situata al centro della Mecca e dedicata al culto della divinità maschile Hubal. L’antico tempio, che nella tradizione islamica successiva (nemmeno Muhammad poté cancellare il culto del luogo, ma si limitò ad integrarlo con un’apposita storia nella nuova religione) era stato distrutto dal diluvio universale, conservava (e conserva ancora) al suo interno la al-ḥajar al-aswad ovvero la Pietra Nera, una roccia estratta per la sua opera di riedificazione da Ibrāhīm (l’Abramo biblico) stesso e da suo figlio Ismāʿīl (l’Ismaele biblico), che la collocarono all’interno del santuario.
Anche l’Islām, come il Cristianesimo, vanta ai primordi persecuzioni e martiri tra i suoi primi fedeli. Nel caso dei musulmani furono gli schiavi dei signori quraysh, che si rifiutavano di abiurare alla loro fede. Alla fine Muhammad, per mettere in salvo i suoi seguaci, dovette scegliere l’esilio e nel 619, dopo la morte dell’amata moglie e dello zio, che lo aveva protetto in quegli anni difficili, di trovare un accordo con gli uomini di Yathrib, che sarebbe poi diventata Medina, la seconda città santa dell’Islām.
In questa città vi erano molte comunità ebree e cristiane, che erano più sensibili alla predicazione monoteista. In più erano rivali commerciali della gente della Mecca, perciò decisero di accogliere Muhammad e i suoi pochi fedeli.
Nel 622 quest’ultimo richiamò tutti i musulmani nella città-oasi di Yathrib, che da allora divenne Madīnat al-Nabī, ovvero la Città del Profeta. Questo è l’anno da cui parte l’hijra, che significa letteralmente “l’emigrazione” e da questo momento inizia il conto degli anno islamico, esattamente come per noi c’è l’avanti e il dopo Cristo, motivo per cui nel il calendario musulmano non ci troviamo nel 2016 ma nel 1394. Muhammad scappò con Abū Bakr dalla Mecca e raggiunse Medina la notte del 24 settembre, sfuggendo ai tentativi di assassinio dei quraysh e da quel momento iniziò a preparare la riscossa.
I migranti e perseguitati fuoriusciti dalla Mecca e gli abitanti di Medina fecero presto un patto, creando la umma, ovvero la comunità dei credenti, che ora conta tutti i musulmani del mondo ma che allora aveva poche centinaia di convertiti. Questo nucleo iniziò a fare razzie contro i loro ricchi vicini meccani, con l’obiettivo di vendicarsi per i soprusi subiti e per ottenere sufficiente benessere e prestigio per conquistare militarmente la città madre, portandovi volente o nolente l’Islām.
La prima vittoria sul campo arrivò nel 624, con la battaglia di Badr (poco più di una grande scaramuccia tra 300 musulmani e 900 arabi politeisti della Mecca), ma subito dopo gli uomini di Muhammad vennero pesantemente battuti (anche perché gli ebrei di Medina lo tradirono) a Uḥud, dove anche il profeta evitò la morte per un soffio. Ritornato malconcio nella sua base di Medina, Muhammad espulse gli ebrei che un tempo lo avevano sostenuto e irrigidì la sua predicazione, che divenne più radicale e militarizzata.
Due anni dopo, nel 627, ci fu la battaglia decisiva, dove i meccani, stanchi della ripresa delle razzie ai loro danni, mossero con il più grande esercito da loro mai assemblato contro Medina, per porre fine a quello che loro ritenevano un covo di fanatici. In quella che passò alla storia come la battaglia del fossato, una trincea scavata dai musulmani tutt’intorno a Medina, i 10.000 quraysh e i loro alleati politeisti vennero sconfitti pesantemente dai guerrieri del profeta. Alla fine della battaglia i musulmani si vendicarono anche degli arabi ebrei dei dintorni, che si erano schierati con gli invasori nella speranza di ritornare in possesso della loro antica città-oasi di Yathrib. Assediati e conquistati nelle loro roccaforti del deserto, per i prigionieri (secondo la tradizione tra i 600 e i 900) ci fu la scelta della morte o della conversione. La maggior parte scelse la prima e le loro mogli e i loro figli vennero ridotti in schiavitù, secondo le norme di guerra del tempo arabe ed ebraiche.
Giusto tre anni dopo il profeta e i suoi seguaci erano diventati abbastanza forti e potenti da marciare sulla Mecca, conquistandola nel 630. A questo punto Muhammad poté dedicare gli ultimi anni di vita a gettare le fondamenta del nuovo Stato teocratico, recitando oralmente ai suoi uomini di fiducia quella serie di regole e norme che in seguito diventerà il al-Qurʾān – che vuol dire per l’appunto recitazione salmodiata -, il libro sacro dell’Islām.
Oltre di religione e di diritto, quest’ultimo si occupò di politica e potere, estendendo l’influenza su tutto l’Hijaz e le tribù del deserto, che in parte convertì e in parte fece sue alleate militari, senza pretendere anche l’obbedienza religiosa. Nel 632, a poco più di sessant’anni, moriva a Medina, senza indicare esplicitamente chi dovesse succedergli alla guida politica della umma.
Abū Bakr, primo convertito maschio e maggiorenne alla nuova religione, oltre che amico fraterno di Muhammad, venne eletto come khalīfat rasūl Allāh, traducibile in “Vicario del Profeta di Allah”, che in italiano divenne semplicemente Califfo. Questo titolo, che passerà tra i maggiori potentati del mondo islamico, scomparirà solo nel 1926, con la caduta del sulṭān ottomano, ultimo a fregiarsi ufficialmente di questo titolo visto che controllava tutte le gradi capitali musulmane (Medina, Mecca, Gerusalemme, Damasco, Baghdad).
Il nuovo capo politico e spirituale della umma si trovò alle prese con la ribellione di molte tribù arabe ancora politeiste, che reputavano (come era d’uso al tempo) di aver concluso gli accordi di pace o di alleanza con i musulmani, in quanto erano impegni contratti con il defunto profeta, perciò non più validi. Abū Bakr, coetaneo di Muhammad e quindi sulla sessantina anche lui, preferì lasciare il compito di sedare la rivolta al suo generale Khalid ibn al-Walid, che diventerà presto un grande protagonista dell’espansione araba. La cosiddetta guerra della Ridda si concluse felicemente in poco meno di un anno, lasciando spirare in pace l’anziano khalīfa nel 634. Aveva regnato appena due anni prima di raggiungere il suo amico e mentore.
Gli successe ʿOmar – oppure ʿUmar – ibn al-Khaṭṭāb, che non era stato un convertito della prima ora. Meccano come Muhammad e Abū Bakr, in principio si era scagliato contro la nuova fede, ma si era convertito grazie alla sorella. Nel 634 si trovava in mano il dominio di tutta la penisola araba (non ancora convertita del tutto ma ormai fedele) e poté pensare a grandi progetti di espansione.
A nord c’erano le tribù beduine che facevano da cuscinetto alle due superpotenze dell’epoca, che come Stati Uniti e URSS nella seconda metà del XX secolo si dividevano il Medio Oriente: Bisanzio e la Persia. ʿOmar fu molto fortunato, perché le due nazioni si erano dissanguate in un lunghissimo conflitto, caratterizzato da alterne fortune e durato quasi trent’anni (602-628 d.C.).
Mai momento fu più propizio ad un giovane, forte e motivato invasore: la Persia, uscita sconfitta e devastata dalla guerra, era alle prese con una dura crisi economica, tasse elevate e dall’ascesa dei proprietari terrieri provinciali che minava il potere centrale del sovrano. D’altra parte anche l’Impero Romano d’Oriente, con il suo basileus Eraclio, versava in precarie condizioni nonostante la vittoria finale: casse statali vuote, i Balcani in larga parte in mano slava e con le provincie orientali (che vennero per questo rapidamente perdute) fiaccate da anni di occupazione persiana, oltre che avverse all’esoso governo centrale, ai suoi esattori delle tasse e alla sua intolleranza religiosa verso le correnti cristiane locali, definite come eretiche da Costantinopoli.
Se avessero avuto anche solo una decina di anni per riprendersi, i razziatori arabi sarebbero stati spazzati via dalle due superpotenze, ma il momento era propizio e i guerrieri musulmani non diedero tregua ad entrambi: tra il 636 e il 637 le forze di ʿOmar uscirono vittoriose sia contro i bizantini, nella battaglia del fiume Yarmuk, e contro i persiani, nella battaglia di al-Qādisiyya. I due grandi trionfi contro eserciti più antichi, sofisticati e numerosi, aprirono le porte all’invasione di Iraq, Palestina, Siria, Libano ed Egitto.
I musulmani, che consideravano cristiani e zoroastriani “popoli del libro”, citati da al-Qurʾān e quindi tollerati anche se non si convertivano, furono trattati meglio rispetto ai precedenti governi centrali, garantendo collaborazionismo e, in seguito, una rapida conversione, perlomeno nelle città. Furono infatti l’élite di potere delle province conquistate che, pur di entrare a far parte della nuova classe dirigente, si affiliò all’Islām, mentre nelle campagne si continuò a professare tranquillamente il cristianesimo o lo zoroastrismo (che smisero di essere la maggioranza della popolazione in Egitto e in Iran solo tra il IX e il X secolo).
La Persia fu piegata nel 651, con la morte dell’ultimo shāhanshāh, il Re dei Re, Yazdegerd III e la totale sottomissione dei persiani, che divennero una componente fondamentale del nuovo mondo musulmano, unendo la loro orgogliosa, avanzata e sofisticata cultura millenaria alla fede islamica. Costantinopoli sopravvisse, seppur indebolita pesantemente, a ovest, bloccando l’espansione araba durante gli assedi del 674 e 717, che spezzarono il fiato alla marea musulmana, iniziando quella lunga guerra di confine che perdurerà con esiti alterni fino all’arrivo dei turchi selgiuchidi nell’XI secolo. Il prezzo pagato dai romani d’oriente fu però il loro dominio sul Mediterraneo orientale e centrale, visto che persero in via definitiva Siria, Libano, Palestina, Egitto, Libia, Cirenaica, l’Africa da Cartagine fino al Marocco e, in seguito, anche Sicilia e Sardegna.
I cristiani monofisiti in Siria, i copti in Egitto e le varie sette gnostiche ed eretiche – per Costantinopoli, intendiamoci – e gli ebrei accettarono di buon grado i nuovi venuti, giudicati ben più tolleranti dell’intransigente clero ortodosso degli imperatori romani, perciò fecero poco o nulla per sostenere le truppe imperiali, che vennero facilmente sopraffatte e opposero una debole resistenza, perdendo immensi territori in breve tempo.
Il più grande sforzo del khalīfa fu quello di riorganizzare tutte quelle terre, sempre più grandi, che si aggiungevano ai domini dell’Islām. Un utile strumento di ricchezza – e di conversione di massa – fu l’introduzione della jizya, una tassa che dovevano pagare tutti i non convertiti, come compensazione per la tolleranza loro riservata, che garantiva di professare indisturbati la propria religione.
Intanto a Medina, ormai capitale di un impero sempre più vasto, ʿOmar venne assassinato da uno schiavo persiano il 4 novembre 644. Erano passati poco più di dieci anni dalla morte di Muhammad e i suoi restanti compagni elessero come successore ʿUthmān. Questi, che divenne il terzo khalīfa, regnò un’altra decade, lasciando proseguire in indipendenza le conquiste ai suoi comandanti e riorganizzando i pilastri dello Stato e della fede.
Fece riordinare sia il testo sacro da una commissione specifica presieduta da Zayd ibn Thābit, principale segretario del profeta defunto. Muhammad, infatti, non scrisse personalmente neanche una riga del al-Qurʾān (alcuni studiosi non islamici affermano perfino che egli fosse analfabeta), dando questo incarico ai suoi segretari, che provvidero a trasferire il dettato orale su occasionali pergamene o altri supporti di fortuna. Tutto questo materiale venne riadattato, migliorato, perfezionato e trasformato da mani diverse nel primo trentennio di governo dei primi tre khalīfa ortodossi, basandosi sugli insegnamenti del profeta e sulla memoria storica dei primi fedeli che avevano vissuto in stretta e prolungata contiguità fisica con Muhammad.
Il khalīfa ʿUthmān fece anche redigere la sunna, ovvero la raccolta dei comportamenti che il profeta aveva assunto in differenti occasioni, che divennero esempi da seguire da parte della comunità dei musulmani e chiave d’interpretazione per la liceità o meno di fattispecie non previste espressamente dal testo sacro. A tali comportamenti è stato quindi attribuito un significato e un valore normativo, andando a comporre assieme al-Qurʾān la famosa sharīʿa, la legge che ancora oggi opera da fondamento giuridico per molti paesi islamici.
Fu però nei suoi ultimi anni che, a causa del suo nepotismo e dell’inimicizia dei patrizi della Mecca, oltre che di frange intransigenti della famiglia di Muhammad, capeggiata dalla sue terza moglie ʿĀʾiša e del generale ʿAmr, che per la prima volta si vide incrinare il monolite islamico. Il 17 giugno 656 le forze ribelli entrarono a Medina, la città del profeta e capitale di un impero che si estendeva dall’Afghanistan e l’India ad est fino al Marocco ad ovest, uccidendo ʿUthmān e facendo salire al potere supremo il cugino, genero, figlio e fratello adottivo di Muhammad: ʿAlī ibn Abī Ṭālib.
Iniziò così quel periodo di guerre civili e fratricide (erano tutti parenti, amici o compagni di Muhammad, un po’ come i diádochoi di Alessandro Magno) che spaccò l’Islām in due. ʿAlī passò il resto del suo regno in guerra, abbandonando per la prima volta Medina e spostando la capitale del califfato a Kufa, in Iraq. La fazione fedele al khalīfa assassinato era forte in Siria e il suo governatore Muʿāwiya gli mosse guerra, conquistando l’Egitto e fondando la dinastia omayyade, che elesse a capitale Damasco, l’antichissima città siriana.
ʿAlī, indebolito anche dallo scoppio dell’eresia kharigita, fu assassinato nel 661 e suo figlio al-Ḥasan cedette tutti i vestigi del potere califfale a Muʿāwiya, che divenne legittimo quinto khalīfa. Ma quanto successo era un mero compromesso, una tregua momentanea che non sopiva le dispute che si facevano sempre più tese tra i parenti superstiti di Muhammad, che divennero un vero e proprio partito, e la nuova leadership omayyade, basata sull’elezione del musulmano più adatto a governare l’impero.
La ahl al-Bayt, la famiglia del Profeta, divenne una fazione minoritaria dotata però di un forte carisma, sempre in rotta di collisione con Damasco. In più Muʿāwiya, nuovo comandante e guida della umma, era figlio di Abū Sufyān, il membro più autorevole della fazione della Mecca ostile a Muhammad nei tempi della sua predicazione. In pratica erano musulmani dell’ultimissima ora utile, visto che si erano convertiti la notte prima dell’entrata vittoriosa del profeta nella città, solo nel 630. E questo “peccato originale” pesava molto negli equilibri di potere tra Medina, Mecca e Damasco.
I nodi vennero al pettine nel 680, quando Muʿāwiya designò come suo successore il figlio Yazīd, inaugurando una vera e propria dinastia. Gli alidi, ovvero i seguaci dei discendenti di ʿAlī, eletto come ultima legittima guida spirituale dalla fazione della famiglia di Muhammad, furono sconfitti pesantemente ma non in modo completo da Yazīd a Kerbela, spaccando definitivamente l’unità della umma islamica. Da questa frattura nacquero gli sciiti – seguaci della linea di sangue di Muhammad nella guida dell’Islām – e i sunniti, fedeli alla tradizione elettiva della guida dei credenti.
La dinastia omayyade trasformò il califfato in un vero e proprio regno terreno, con dinastie, eserciti, leggi e lotte di potere che poco o nulla avevano di religioso. Nel 750 questa famiglia venne rovesciata da una fazione ribelle, quella degli abbassidi, sostenuta dall’élite persiana ormai convertita, che sposterà il baricentro imperiale in Iraq e Iran, fondando Baghdad – la città della pace – e regnando per i successivi cinque secoli, fino alla tempesta mongola del XIII secolo.
Furono queste lotte di potere a frammentare anche politicamente la umma, facendo sorgere prima ai confini più esterni e poi anche all’interno tanti piccoli e grandi potentati, come l’emirato di Cordova in Spagna, i regni del Maghreb e dell’Africa, il sultanato d’Egitto e perfino gli staterelli della penisola araba.
Venendo quindi alle due maggiori correnti che ancora oggi dividono l’Islām, abbiamo gli sciiti (il termine deriva da shiʿa, che in arabo significa partito o fazione), che sono i discendenti di coloro che furono i seguaci di ʿAli e dei suoi discendenti, e i sunniti, i quali credono che alla suprema carica islamica possa accedere un qualsiasi credente.
Tutto iniziò nella già citata battaglia di Karbala, nel 680, quando il sesto khalīfa Yazīd fece uccidere i figli di ʿAli, per evitare future insurrezioni, rendendo la questione palese agli occhi di tutti e facendo partire il processo divisivo che si perfezionerà nei secoli successivi. Gli alidi iniziarono a considerare ʿAlī come unica guida – imām – legittimata a governare. Dalla questione politica e familiare il conflitto divenne anche religioso e giuridico, con tutta una serie di piccole modifiche (seppur non sostanziali) della dottrina. Per gli sciiti i ruoli di imam e di khalīfa, rispettivamente la guida religiosa e quella politica dell’intera umma, dovrebbero restare uniti in una sola persona, discendente diretto della famiglia del profeta.
l’Islām sciita è minoritario nel mondo, con una percentuale che va dal 6 all’11%, ma domina in paesi di rilievo come Iraq, Libano e Iran, anche a causa della sua convinta adesione da parte dei regnanti safavidi della Persia tra il XVI e il XVIII secolo. Ancora ora i loro luoghi più sacri non sono in Arabia ma nel Golfo Persico, dove avevano stabilito le proprie basi – e dove sono morti – ʿAli e i suoi figli al-Hasan e al-Husayn, durante la guerra civile contro la nascente dinastia omayyade.
Tutti i discendenti di al-Husayn, che si consideravano imam e aspiravano a diventare anche khalīfa, subirono sorti tragiche e spesso violente, venendo perseguitati o uccisi dai dinasti omayyadi prima e abbassidi poi, finché il dodicesimo successore si occultò definitivamente nell’anno 874. Questo passaggio alla clandestinità, che venne subito dipinto come soprannaturale dai contemporanei, mise termine alle rivendicazioni sul potere temporale e diede una dimensione fortemente escatologica e religiosa allo sciitismo. Gli sciiti duodecimani, coloro che prestano fede a tali dodici imam, da quel momento in avanti accettarono passivamente l’ordine politico stabilito, nell’attesa del ritorno dell’imam scomparso che, alla fine dei tempi, tornerà a manifestarsi e a ristabilire la giustizia sulla terra. In questa attesa, nessun potere politico è pienamente legittimo.
Lo sciismo rispetta e condivide i cinque pilastri del l’Islām con i sunniti, ovvero la professione di fede, la preghiera canonica cinque volte al giorno, l’elemosina, il digiuno nel mese di ramaḍān e il pellegrinaggio alla Mecca e dintorni almeno una volta nella vita, a cui aggiungono altri cinque principi dottrinali: il monoteismo (tawḥīd), la profezia (nubuwwa), l’imamato (imāma), la resurrezione (maʿād) e la giustizia di Dio (ʿAdl).
Il sunnismo, da ahl as-sunna wa l-jama‛a, comprende invece il restante 90% circa dei musulmani, riconosce la validità della sunna e si ritiene il vero erede della giusta interpretazione del testo sacro. I sunniti rifiutano nettamente la pretesa sciita che la guida della umma debba essere riservata alla sola discendenza del profeta Muhammad attraverso sua figlia Fāṭima e suo cugino ʿAlī ibn Abī Ṭālib.
La visione sunnita è quindi più aperta, perché prevede che alla guida dei credenti possa accedere non solo qualsiasi buon musulmano, ma anche un non arabo, garantendosi quindi l’adesione di quella gran maggioranza di islamici che non provengono dalla penisola araba. In più si distinguono anche dall’eresia kharigita, che partiva dall’estremo presupposto che la guida della società islamica dovesse essere riservata al migliore dei credenti: qualità difficile da individuare e ancor più da mantenere, perché un semplice peccato, anche non grave, avrebbe fatto decadere dal suo supremo ufficio l’imam–khalīfa.
I sunniti si rifanno idealmente alla saggia guida democraticheggiante (o meglio dire oligarchica) stabilita nella successione dei primi khalīfa, tra i compagni, parenti e amici del profeta. In più fanno propria la sunna, il complesso orale e poi trascritto degli aneddoti lasciati da Muhammad – un po’ come le parabole e i vangeli di Gesù – e sul libro sacro, al-Qurʾān.
Va detto, in ultimo, che i musulmani sunniti sono stati (e in buona parte ancora lo sono, tranne che nella variante più intransigente wahhābiyya) abbastanza tolleranti per vari secoli rispetto alla minoranza sciita, considerandoli parte della umma, per quanto corrente con specificità sue proprie.
Lo scontro si estremizzò a causa della politica nel XVI secolo, perché l’impero turco-ottomano e quello persiano safavide erano rispettivamente sostenitori delle due correnti. Il sulṭān di Costantinopoli si proclamò araldo dei sunniti – e, una volta conquistate Medina e la Mecca nel 1517, si proclamò anche khalīfa di tutti i credenti – e lo shāhanshāh di Tabriz e Isfahan parteggiava per gli sciiti.
Questa divisione politica e bellica, che cercava di decidere quale delle due superpotenze doveva diventare la guida per tutti gli altri potentati islamici, ha generato strascichi etnico-religiosi che sono arrivati fino ad oggi, a cui si aggiunge la corrente sunnita wahhābiyya, molto meno tollerante rispetto a quella tradizionale.
Questo movimento, fondato in Arabia da Muḥammad ibn ʿAbd al-Wahhāb nel XVIII secolo, ai suoi albori era soltanto uno dei tanti tentativi di ritorno alla purezza e al rigore delle origini dell’Islām, un po’ come Martin Lutero aveva fatto due secoli prima con la Riforma in Germania. La sua deriva austera, intollerante verso le differenze dottrinali e molto conservatrice, oltre che la sua proliferazione nella penisola arabica (dove è ancora ora il credo dominante), l’ha esposta a numerose critiche.
Il wahhabismo costituisce oggi una forma estremamente rigida di Islām sunnita, che insiste su di una interpretazione letterale del testo sacro e una rigida applicazione della sharīʿa. I wahhabiti credono che tutti coloro che non praticano secondo le modalità da loro indicate siano pagani e nemici della fede, cosa che li ha resi molto propensi al reclutamento tra gli estremisti islamici contemporanei.
In più questa corrente, che può godere di sponsor influenti come l’Arabia Saudita e molti paesi del Golfo Persico, maggiori produttori di petrolio al mondo, ha conosciuto una crescita esplosiva dal 1970 ad oggi, con madrase – scuole coraniche – fondate in tutto il mondo, arabo e non. I wahhabiti più intransigenti bollano sunniti moderati (la maggioranza, per fortuna) e sciiti come apostati o eretici, escludendoli dalla umma e considerandoli oggetto di persecuzione tanto quanto gli infedeli.
Ho tralasciato, per motivi di spazio – sarebbe necessario almeno un libro intero – tutte le altre correnti, visioni e derivazioni teologiche dell’Islām, ma penso di esser riuscito a fornire un quadro generale sulla sua nascita e sul suo sviluppo principale. Anche qua, trovo confermata la mia personale idea che anche quest’ultima religione monoteista è nata da uomini ed è stata costruita da uomini, che si sono basati sulla propria personale esperienza per plasmare la loro visione del mondo.
In più il testo sacro, esattamente come per la Bibbia, venne redatto da più e più mani in tanti anni, non direttamente dai fondatori della religione o dai suoi canonici profeti, mentre fu il frutto della memoria orale – riletta nella chiave politica e culturale del momento – dei redattori e compilatori successivi.
È infine interessante constatare che ogni qual volta qualcuno cerca di creare un’intelaiatura dogmatica unica e assoluta, valida per l’intera umanità – il discorso vale per tutti i popoli del libro, che siano ebrei, cristiani o musulmani – subito appaiono le eresie, ovvero delle differenti visioni della fede, che proliferano incontrollate fino alle persecuzioni del potere religioso centrale, in genere legato a quello temporale, come imperatori, re, sultani o emiri.
Insomma la routine dell’essere umano, che si colora nei secoli di religioni, culture e ideologie differenti per dare una pezza giustificativa al suo bisogno di affermarsi e lasciare una propria personale impronta nell’eternità.
Alberto Massaiu
2 Comments
Come dice bene l’articolo, alle fondamenta di questo credo c’è la guerra, guerra contro i politeisti, guerra contro ebrei e cristiani che non accettano le condizioni poste dal Profeta.
La schiavitù era pratica comune e il profeta stesso ne possedeva molti. Quindi quello che succede oggi non è sorprendente.
Una precisazione: gli ahl al-kitab (Popoli del Libro) sono ebrei e cristiani non cristiani e zoroastriani! Il “libro” di cui si parla è la Torah ed è il libro che condividono, appunto, ebrei a cristiani!
Al riguardo della presunto e tanto sbandierata tolleranza dei musulmani nei confronti degli ahl al-Kitab suggerisco la lettura del seguente libro: “Il declino della cristianità sotto l’islam. Dal jihad alla dhimmitudine.” di Bet Ye’or, che fornisce una lettura completamente diversa e, per molti aspetti nuova, della presunta tolleranza del califfato nei confronti dei popoli infedeli (kuffar) sottomessi!
Per prima cosa viene spiegato che molte tribù arabe cristianizzate si erano stanziate ai margini dell’Impero Romano e di quello Persiano ed era ufficialmente alleate dell’uno o dell’altro.
Molte di queste tribù, all’arrivo degli eserciti arabi islamizzati, tradirono i rispettivi alleati perché videro in questa invasione la possibilità di darsi ai saccheggi delle ricche città del Medio Oriente e dunque di accumulare un grande bottino, attività tipica dei popoli nomadi arabi.
Gli invasori si abbandonarono a massacri di ogni tipo perché giustificati dalla loro fede. Chi veniva ucciso era un infedele che non era ancora stato sottomesso e, nelle regole stabilite dal loro credo, questo non solo era giusto ma pure doveroso.
Un infedele acquisisce il diritto alla vita, agli occhi della comunità musulmana (Umma), solo nel momento in cui accetta la sottomissione ad essa, che altro non significa che cedere il potere politico ai musulmani ed accettare che la sharia diventi la legge che governa il suo stato, e pagare la jizya (La tassa imposta agli infedeli).
Fintanto che questo non avviene, il jihad è ciò che attende l’infedele. Massacri, riduzione in schiavitù, perdita di tutti i propri beni, distruzioni dei propri luoghi di culto erano tutte pratiche accettate all’interno del quadro legislativo stabilità dal jihad.
Secondo la tradizione poi sviluppatasi nei secoli successi alla morte del profeta, il mondo viene visto diviso in due macro aree: daar al-Islam e daar al-Harb. Il daar al-Islam (La casa dell’Islam) corrisponde a tutta quell’area del globo controllata dai musulmani nel quale la legge deve essere la sharia e gli infedeli debbono essere sottomessi ai musulmani e pagare la jizya.
(Il rifiuto del pagamento di questa o l’impossibilità materiale di farlo, comportano la fine del contratto di protezione per gli infedeli (dhimma). Pertanto essi possono essere uccisi oppure ridotti in schiavitù oppure ancora obbligati a convertirsi).
Il daar al-Harb (La casa della guerra) corrisponde a tutte il resto del globo ovvero tutte quelle aree che ancora non giacciono sotto il controllo diretto della comunità musulmana. E’ contro questa che si scatena il jihad che termina solo con l’accettazione della sottomissione al potere dei musulmani, come prima spiegato.
Per quanto riguarda i persiani va sottolineato che, nonostante questi si fossero convertiti (Volontariamente o forzatamente) furono fatti oggetto di pesante discriminazione da parte del Califfato. Pare infatti che il Califfo avesse proibito agli uomini persiani di sposare donne arabe, mentre era perfettamente lecito per gli arabi sposare donne persiane.
Inoltre pesanti restrizioni limitavano l’impiego dei persiani negli incarichi pubblici e nell’esercito.
Questo spiegherebbe perché i persiani non sono mai stati assimilati trai i popoli arabi ma abbiano mantenuto una propria specificità.
Si deve a questo la scelta dai Safavidi (Ismail I) di fare del Sciismo la religione di stato del loro impero ovvero la voglia di distinguersi in tutti i modi dal mondo arabo e recuperare, almeno in parte, i legami con l’antica civiltà e cultura persiana che non aveva nulla in comune con quella araba!
Secondo Ye’Or, l’epoca d’oro del Califfato corrispose alla parte iniziale della sua storia ovvero a quel periodo in cui i cristiani, gli ebrei e gli zoroastriani costituivano più del 90% della popolazione risiedente nel Califfato.
Le civiltà originarie di questi popoli erano ben più complesse, sviluppate e sofisticate di quella araba e fu solo grazie alle conoscenze e alle competenze dei popoli sottomessi che il Califfato poté ottenere i suoi successi.
Il declino di questi popoli in seguito alle continui persecuzioni a cui erano sottoposti determinò la crisi stessa del Califfato, anche perché la Jizya costituiva la voce principale nel capitolo delle entrate del bilancio dello stato islamico.
Il declino degli infedeli sottomessi significava anche un calo netto nel gettito fiscale raccolto.
Per questo, in diverse zone dell’Impero arabo, furono proibite le conversioni all’Islam!
L’impero arabo viveva alle spalle dei popoli infedeli sottomessi. Il loro declino mise in crisi l’intero sistema anche perché, come spiegato, i migliori collaboratori e funzionari del Califfato non erano i musulmani bensì gli infedeli sottomessi che con le loro conoscenze e competenze avevano permesso di erigere un simile impero, renderlo funzionante e tenerlo unito.
La predilezione che i Califfi avevano per questi funzionari si deve proprio a questo. Erano perfettamente consapevoli del fatto che i loro servitori ebrei, cristiani e persiani erano molti più competenti e preparati dei corrispettivi arabi. Inoltre il loro status di dhimmi (Infedele che ha accettato la sottomissione, paga la jizya, e dunque è un protetto) li poneva in una situazione di assoluta precarietà. Era abbastanza facile accusare un infedele di blasfemia e dunque metterlo a morte. La vicinanza al Califfo e la sua stima assicuravano un grado di protezione che gli altri infedeli “protetti” non potevano ottenere. I Califfi, consapevoli di tutto questo, sfruttavano la situazione a loro vantaggio e si circondavano di questi collaboratori della cui fedeltà non doveva più di tanto dubitare. La loro protezione era così necessaria a questi servitori che difficilmente questi si sarebbero mai anche solo sognati di tradire il loro protettore!
Come spiega YeìOr, la dhimmitudine non era affatto uno status acquisito in maniera permanente, come spesso viene descritto.
La protezione, in realtà, era molto teorica e assolutamente precaria. Il confine tra protetto e schiavo era sottile e bastava poco per finire per essere considerati schiavi!
Di nuovo, la tolleranza di cui tanto si parla, è forse più mitica che altro. I documenti raccontano una realtà ben diversa e non bisogna lasciarsi confondere da quei documenti scritti da ebrei e cristiani nei quali si loda la protezione fornita dal Califfato. I cristiani e gli ebrei, in quanto oggetto di costante persecuzione da parte delle varie tribù arabe che si davano regolarmente ai saccheggi, potevano solo confidare nell’intervento del Califfo per vedere posto un freno a queste razzie!
Non avendo nessun altro a cui potersi rivolgere non rimaneva altra possibilità che coprirlo di lodi.
Bella considerazione, anche se vista la lunghezza meriterebbe un vero e proprio articolo a parte 😉 Muovo giusto un paio di precisazioni a quanto hai ben detto: anche io sapevo che i popoli del libro erano solo ebrei e cristiani, ma ho scoperto che (per evitare continue rivolte in un periodo di espansione) gli islamici considerarono fittiziamente anche i zoroastriani come tali, includendoli nello status particolare di non perseguitabili. Per il resto ho evitato di trattare il particolare status dei beduini arabi cristiani di Siria e Palestina (cuscinetto alleato o nemico tra Bisanzio e la Persia) perché il testo era già molto lungo e l’argomento meriterebbe a sua volta un articolo ad hoc. L’Islam nasce in un contesto culturale (quello tribale arabo) molto battagliero, perciò incentrato su mercanti (la jizya ne è un perfetto esempio) e guerrieri. Spesso queste due figure si confondevano tra loro diventando razziatori, cosa che venne molto comoda ai generali islamici. In ultimo la tolleranza, a mio parere, è un dato di fatto nel primo periodo, proprio per i punti che hai evidenziato: i musulmani erano pochi e dovevano combattere, perciò non conveniva loro perseguitare i nativi, che erano ben lieti di pagare le tasse (più basse rispetto a quelle di Costantinopoli e di Ctesifonte, soprattutto dopo la loro lunga guerra) e proseguire con i loro affari. Tieni anche conto che le regioni conquistate erano piene zeppe di sette e correnti considerate eretiche dai rispettivi governi centrali, cosa che non ha giovato alla loro fedeltà dopo i primi rovesci militari. Insomma una concatenazione di fattori fortunosi che ha permesso all’Islam di crescere e svilupparsi in maniera ciclopica. Poi, quando decisero di irrigidire la linea d’azione con gli abbassidi, i nodi che tu hai indicato vennero al pettine e partì la crisi e la frammentazione.