La Sardegna è una delle terre geologicamente più antiche d’Europa. Si trova tra le prime terre emerse del Mediterraneo, con vulcani ormai spenti e sufficientemente lontana dalle grandi faglie in collisione che hanno generato, ad esempio, le isolette vulcaniche a largo delle coste siciliane, a sud-est.
Anche la storia umana affonda le sue radici in un passato talmente remoto da essere adatto solo ad ipotesi e congetture. I resti megalitici dell’isola, che vanno dallo ziqqurat di Monte d’Accoddi (un unicum nel Mediterraneo occidentale) risale ad almeno 5.000 anni fa, mentre la civiltà nuragica ha disseminato la Sardegna con decine di migliaia di strutture che vanno dalle “semplici” torri nuragiche ai veri e propri “castelli” che si possono ammirare a Barumini, Santu Antine, Prisgiona. Se questi resti, ancora fieri e imponenti, testimoniano le gesta di una civiltà popolosa ed evoluta (il Medioevo ha visto molte meno strutture imponenti rispetto all’epoca nuragica), che dire delle tombe dei giganti, le necropoli dette domus de janas – case delle fate –, i pozzi sacri o i recentissimi Giganti di Mont’e Prama?
Ad ogni modo la Sardegna è già famosa per questi resti di ere lontane, ma molto meno rispetto alla sua eredità più recente. Argomento di questo articolo sarà infatti quello spazio di tempo che viene considerato come “i secoli bui”, ma che in realtà ha tanti aspetti peculiari e interessanti, con risvolti intriganti dal punto di vista sociale, religioso, politico e militare.
Partiamo dall’alba dell’evo medio, oppure, se guardiamo la cosa da un altro punto di vista, dal crepuscolo della tarda classicità. Nel VI secolo d.C. la Sardegna era in mano al popolo dei vandali, un crogiolo di genti barbare che partendo dalle steppe e passando dall’attuale Germania avevano infine invaso la Gallia romana nel 406 d.C. assieme ai franchi, gli alani e i burgundi.
Il viaggio dei vandali non si era però fermato nell’attuale Francia, ma si era spinto prima in Spagna e poi, dopo un avventurosa epopea, era giunto fino a Cartagine, creando un potente e prospero regno di pirati e razziatori, dotato di eserciti, flotte e una capitale di tutto rispetto. Dall’antica città punica questo popolo germanico, sotto la guida del Re Genserico, aveva conquistato la Sardegna e una parte della Sicilia, saccheggiando perfino Roma nel 455 d.C.
Il dominio vandalo perdurò sull’isola quasi per un secolo, ma venne spazzato via dalla riscossa romana del grande Imperatore di Costantinopoli, Giustiniano. Questi incaricò il suo miglior generale, Belisario, di riconquistare l’Africa con una campagna lampo. Nel biennio 533-534 il comandante romano sconfisse il Re Gelimero, annientando per sempre il più particolare dei regni romano-barbarici, sorto in mezzo al Mediterraneo.
Da quel momento, fino al VII secolo circa, la Sardegna diventerà parte della Prefettura d’Africa, con capitale Cartagine. La lenta fine del dominio romano-bizantino sull’isola è dovuta all’avvento dell’Islam. Come un fiume in piena la nuova religione nata tra Madīnat e Makka spazzò via l’ordine plurisecolare del Medio Oriente. La Persia, nemica di vecchia data di Roma prima e di Costantinopoli poi, venne assoggettata. L’Impero Romano d’Oriente perse in breve tempo la Palestina, la Siria, l’Egitto e l’Africa, rischiando a sua volta l’estinzione.
Gli arabi assediarono la stessa capitale, Costantinopoli, per ben tre volte tra il 668 e il 717. In questo clima di pericolo e debolezza tutte le forze romane vengono richiamate verso il cuore dell’impero, abbandonando al loro destino le province periferiche, che se la devono cavare da sole.
Nel 698 cade in mano araba Cartagine e nel 827 i musulmani invadono la Sicilia, tagliando fuori del tutto la Sardegna dai contatti con Costantinopoli. I governatori dell’isola in quel periodo erano due: lo iudex provinciae, che aveva incarichi civili e risiedeva a Calaris, e un dux con potere militare di stanza a Forum Traiani (l’attuale Fordongianus), che sorvegliava i sardi delle montagne, mai del tutto domati e ancora pagani in un mondo che, pian piano, si convertiva al Cristianesimo.
A causa delle incursioni arabe e dal sempre maggiore isolamento rispetto al potere centrale le due cariche vennero via via unificate, la città-fortezza di Forum Traiani abbandonata e le truppe e la flotta superstiti vennero concentrate a Calaris, gestita da uno iudex provinciae che assumeva sempre più i poteri del suo signore nominale, il basileus di Costantinopoli.
I pochi contatti, sempre più radi, con la corte romano-bizantina continuarono e la Sardegna venne eletta a ducato e poi ad arcontato, con i governatori con titoli di origine greca o latina come hypatos, protospatharios, patricius. Questa peculiare condizione di isolamento tenne lontana l’isola dal sistema feudale, ma anche dall’evoluzione dello stesso Stato bizantino dei secoli successivi, cristallizzando un unicum nel panorama medievale europeo.
Per prima cosa in Sardegna rimase una concezione romana del diritto, cosa che permise ai giudicati – i quattro regni in cui si divise l’isola nei secoli seguenti – di essere più simili al defunto Stato romano che ai regni del continente, legati alla cavalleria e al feudalesimo.
L’Impero romano-bizantino dell’epoca di Giustiniano fino ad Eraclio era uno Stato autocratico, che ruotava intorno alla figura del sovrano, che creava e sostituiva i ministri a piacimento, aveva il totale controllo delle finanze e del potere legislativo, dell’esercito e della Chiesa (una sorta di cesaropapismo, dove potere laico e religioso si concentravano su di un’unica persona). Tuttavia, in virtù della lex de imperio, il trono non era ereditario ma elettivo per acclamazione del senato, dell’esercito e del popolo il quale, se ingannato nelle proprie prerogative, aveva il diritto legale alla rivolta.
Un’altra sostanziale differenza con il sistema feudale risiedeva nella netta separazione tra la Cosa Pubblica e i patrimoni privati (i feudatari francesi, tedeschi o italiani, invece, passavano ai loro figli come fosse proprietà personale i castelli e le terre, indebolendo il potere dei loro re): nella Sardegna giudicale, infatti, vigeva la distinzione tra il patrimonio pubblico (detto de rennu) e quello privato (detto de pegugiare, traducibile con la parola “peculiare”).
Tornando alla storia, bisogna dire che le fonti di quegli anni sono rare e quindi il passaggio da provincia bizantina a insieme di Stati indipendenti non è molto chiaro. Le fonti migliori sono delle lettere papali che dalla metà del IX secolo iniziano ad usare il plurale per identificare i signori dell’isola, usando i termini latini di iudices o principes. Interessante, ma giusto per dare colore al tutto, è un atto ufficiale della corte di Costantinopoli redatto all’epoca del basileus Costantino VII che indica tra i titoli imperiali l’archon di Sardegna nel 915 d.C. Più che essere una prova di un dominio bizantino sull’isola, mi pare più il pignolo e anacronistico aggiustamento di una burocrazia conservatrice, sorda alla situazione reale di terre ormai da tempo perdute ma ancora rivendicate.
È invece probabile che, proprio per rispondere meglio alle sempre più frequenti scorrerie arabe, lo iudex provinciae di Calaris abbia nominato altri tre amministratori ai quattro angoli della Sardegna, in modo da intervenire più rapidamente a rintuzzare gli attacchi musulmani che potevano arrivare dall’Africa, dalla Sicilia e dalla Spagna, ormai tutte in mani nemiche. Questi ultimi, nei due secoli successivi, avevano via via reclamato una sempre maggiore indipendenza, fino a creare quattro Stati sovrani, spezzettando l’antica provincia.
Interessante, da questo punto di vista, l’ipotesi che teorizza l’origine di tutte le quattro casate giudicali dalla famiglia Lacon-Gunale, forse greco-romana, che può giustificare la pacifica (pare) suddivisione in regni, avvenuta tra rami della stessa casata che solo col tempo hanno creato una loro identità. Questa tesi può avvalorarsi di alcune lettere irate del Papa Niccolò I, che in un’epistola dell’864 condannava i matrimoni tra consanguinei dei giudici di Sardegna. Che questa dinastia volesse conservare il proprio sangue greco o romano puro, senza mischiarlo ai nobili autoctoni? Ricordiamo anche che i primi documenti giudicali, i timbri e i titoli erano spesso in greco e non in latino, come testimonia un’iscrizione trovata nell’antica città di Tharros con indicato, in caratteri ellenici, la titolatura “Zerchis àrchon Arbor”, ovvero Zerchis, Arconte (abbiamo visto che era sinonimo di Giudice) di Arborea.
Ad ogni modo i sovrani giudicali legarono il loro destino ai potenti latifondisti (retaggio della tarda romanità, detti in sardo donnos majorales, traducibile pressappoco in “grandi signori”), al clero e ad una classe di cavalieri (piccoli proprietari terrieri da non confondere con i cavalieri feudali) detti lieros de cavallu, che prestavano servizio militare come i kaballarioi o gli akrites bizantini.
I grandi signori e la gerarchia ecclesiastica di alto rango formava la Corona de Logu, una sorta di parlamento che ricordava l’antico Senatus di Roma o di Costantinopoli, che eleggeva il sovrano (anche se la prassi, come nell’Impero, era la conferma dell’erede di sangue dello Iudex defunto) e lo assisteva nelle decisioni più importanti di governo, comprese le dichiarazioni di guerra o la firma della pace, la tassazione e le questioni religiose di una certa importanza.
La cerimonia di investitura del Giudice era detta su collectu. Molto solenne e simbolica, vedeva i maggiori nobili del rennu che si disponevano in circolo (da qui il termine Corona de Logu), con al centro colui che aveva il compito di presiederla. Questa assemblea definiva le attribuzioni e l’ambito del potere del Giudice, ovvero la sua attività di governo, giuridica e militare (rennare, potestare, imperare). Di grande rilievo era il bannus consensus, ovvero l’equilibrio di cui il sovrano era il massimo garante. Se questi lo avesse rotto, violando arbitrariamente la fiducia concessa dal popolo (inteso come gli aristocratici, il clero e i rappresentanti delle comunità rurali), avrebbe tradito il fondamento stesso del proprio potere e, perso il consensus, sarebbe stato destituito e legittimamente giustiziato.
Lo Stato giudicale sardo era quindi una monarchia mista elettiva-ereditaria, con un parlamento, una netta divisione tra patrimonio pubblico e privato, oltre che una solida base legislativa e burocratica, espressa da una cancelleria giudicale (detta Camera Scribaniae) molto avanti per i tempi (o forse, meglio dire, che aveva mantenuto gli usi romani ormai dimenticati nel reso dell’Europa altomedievale) e retta da funzionari detti majores, comandati da un majore de camera, figura simile ai maggiordomi carolingi o forse al megas logothetes bizantino.
La corte dei sovrani dell’isola era spesso itinerante, ma aveva delle città-fortezze privilegiate, che si potrebbero definire quasi come delle capitali: Pluminos o Santa Igia nel Giudicato di Calari (l’antica città romana di Caralis venne abbandonata a sé stessa, troppo esposta alle incursioni saracene), Torres e poi Ardara per il Giudicato di Torres, Tharros e in seguito Oristano per il Giudicato d’Arborea e infine Civita per la Gallura.
Gli Stati giudicali erano divisi in curadorias, distretti amministrativi di varia estensione, formati da centri urbani e ville rurali, dipendenti da un capoluogo dove aveva sede il curadore. Questi, coadiuvato soprattutto in materia giudiziaria da jurados e da un consiglio detto Corona de Curadoria, rappresentava localmente l’autorità giudicale e curava il patrimonio pubblico della Corona. Il curadore era di nomina regia o comunque approvato dal Giudice. Egli aveva un mandato a tempo determinato con autorità sull’esazione fiscale, sull’amministrazione della giustizia e sull’arruolamento dell’esercito.
Le curadorias erano anche dei veri e propri distretti elettorali: gli uomini liberi si riunivano periodicamente in assemblea al fine di eleggere il proprio rappresentante presso la Corona de Logu. Questo sistema amministrativo era molto efficace per la gestione del territorio e venne meno solo con l’imposizione del sistema feudale da parte dei conquistatori aragonesi nel XV secolo.
Questo microcosmo storico rimase intatto fino alla fine delle scorrerie arabe in occidente, nell’XI secolo. I giudici sardi, spesso alleati tra loro, preservarono i loro domini e intrapresero, assieme alle neonate repubbliche marinare italiane, guerre e incursioni vittoriose nelle Baleari, in Sicilia e Africa. Questo creò legami politici, economici e infine familiari con i pisani e i genovesi, che iniziarono a porre le basi della loro influenza nei centri di potere dell’isola.
Lentamente, ma in modo sempre più profondo, queste orgogliose e potenti città si fecero garantire sempre più privilegi nelle corti di Torres, Gallura, Arborea e Calari. Molti nobili toscani e liguri si insediarono in Sardegna, spesso invitati dagli incauti judikes per colonizzare terre e valli spopolate dalle incursioni arabe. Famiglie come i Doria, i Malaspina, i Visconti, i Donoratico, innalzarono castelli e divennero delle quinte colonne della madrepatria in terra sarda, minando il potere giudicale alle sue fondamenta.
Tra il XII e il XIII secolo ben tre su quattro giudicati (Calari, Torres e Gallura) caddero in mani straniere, spezzettati tra pisani e genovesi, mentre solo l’Arborea rimase forte e indipendente, riuscendo a cacciare dai suoi confini i pericolosi infiltrati e combattendo guerre per impossessarsi di castelli strategici appartenuti un tempo ai vecchi Stati confinanti.
All’alba del XIV secolo la dinastia Bas-Serra, che regnava in Arborea, era pronta alla cacciata delle arroganti truppe pisane e degli ingombranti nobili toscani e genovesi che controllavano i 3/4 dell’isola, ma un nuovo attore si fece avanti nel panorama politico della Sardegna. Una potenza che avrebbe segnato il destino dell’ultimo Giudicato e dell’indipendenza del popolo sardo: la corona d’Aragona.
Alberto Massaiu
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