Il colonnello Thomas Edward Lawrence è stato un personaggio dalle mille sfaccettature: studioso e appassionato di Medio Oriente, militare, archeologo, agente segreto. Insomma una miscela tra Allan Quatermain (l’Indiana Jones britannico), James Bond e Clive d’India.
Quest’uomo, che tra un’azione spericolata e l’altra trovò persino il tempo di tradurre in lingua inglese l’Odissea di Omero, divenne il paladino del Nazionalismo arabo, sfruttando le istanze dei popoli del Najd, al-Ḥiǧāz, Giordania, Siria e Irak contro l’Impero Ottomano, nemico della Gran Bretagna durante il Primo Conflitto Mondiale.
Il teatro di guerra del Medio Oriente fu il più vasto – anche se il meno conosciuto, perché gli si preferisce il Fronte Occidentale di Francia o al massimo quello Orientale con la Russia, mentre solo noi e gli austriaci diamo grande valore alle offensive tra Veneto e Friuli Venezia Giulia – in tutta la guerra, con almeno cinque campagne separate tra Sinai e Palestina, Mesopotamia, Persia, Caucaso e la tragica (per britannici e francesi) Gallipoli.
Vi presero parte truppe che provenivano da tutto il mondo: inglesi, russi, australiani, canadesi, indiani, neozelandesi, francesi, arabi, georgiani e armeni contro turchi, tedeschi, austro-ungheresi, azeri e arabi lealisti, per un totale di sei milioni e mezzo di militari.
La conclusione dell’immane scontro determinò un mutamento sostanziale di tutta l’area, con la dissoluzione del decadente ma estesissimo Impero Ottomano e la nascita di tutta una serie di Stati Nazionali che entrarono rapidamente nell’orbita coloniale – tramite il sistema dei “mandati” della Società delle Nazioni – di Gran Bretagna e Francia, che così raggiunsero il loro apogeo imperiale.
Gli interessi in gioco nell’area erano di tre tipi:
1) quelli economico-strategici, peculiari della Gran Bretagna, che puntava a controllare i pozzi petroliferi dell’Iran – attraverso la Anglo-Iranian Oil Company – ed estendere la sua influenza e sfruttamento anche su quelli di Arabia e Irak. Stessa linea, sul fronte opposto, dei tedeschi, che volevano scardinare il predominio russo e britannico nella regione per accedere al petrolio del Caucaso e della Mesopotamia;
2) quelli nazionalistici, in totale contrasto tra loro, come quello di azeri, armeni, georgiani, greci, arabi, curdi;
3) quelli egemonici o di prestigio, come la Russia, che puntava a papparsi tutto il Caucaso, una parte dell’Anatolia e, magari, persino Costantinopoli, oppure dell’Impero Ottomano, che seguendo il piano del ministro della guerra İsmail Enver Paşa sognava una coalizione di Stati turchi che andasse dall’Asia Minore fino alle steppe siberiane, unendo tutte le genti di origine turanica.
Questo conflitto, che ebbe come suo tragico corollario il genocidio di circa un milione e mezzo di armeni – rei di essere cristiani, in genere benestanti rispetto ai turchi e soprattutto di volersi ritagliare uno Stato indipendente – e forse mezzo milione di greci – anche loro vittime del sogno di restaurare un Impero Bizantino tra le due sponde del Mar Egeo – spaziò in Asia, Africa del Nord e Arabia, ma noi ci concentreremo in questo articolo solo sulle vicende relative a Lawrence e ai leader arabi.
Nel 1915, infatti, i britannici avevano tentato il colpo gobbo, attaccando Gallipoli con la loro flotta, sperando di prendere Costantinopoli e tagliar fuori i turchi dal conflitto con una sola, audace azione. Il progetto, ideato e sponsorizzato dal ministro della marina Winston Churchill, finì in un sanguinoso fiasco nelle ben fortificate alture della strettoia del Bosforo, dove le trincee ottomane, i cannoni pesanti, la consulenza di ottimi ufficiali tedeschi e le malattie portarono al massacro le giovani reclute australiane, neozelandesi e inglesi.
Per risollevare la situazione i britannici puntarono a colpire ancora più lontano, in Arabia, sostenendo le rivendicazioni nazionaliste locali. Va detto infatti che, per quanto turchi e la maggior parte degli arabi condividessero la stessa religione, ovvero l’Islām sunnita, questi ultimi si sentivano estromessi dal potere e soprattutto si reputavano etnicamente diversi dai primi.
Lo sharīf Makka, lo sceriffo della Città Santa della Mecca, era all’epoca al-Ḥusayn ibn ʿAlī Himmat, membro della casata Al-Hāshimīyūn o hashemita, che si gloriava di discendere direttamente dal profeta Muḥammad. A quest’ultimo, che in principio era rimasto fedele al Sultano di Costantinopoli, i britannici fecero più o meno le stesse grandi promesse che fecero agli italiani con i patti segreti di Londra per far loro cambiare bandiera, ma che poi mantennero solo in parte.
In pratica l’high commissioner al Cairo, Sir Henry McMahon, promise ad al-Husayn un “Grande Regno Arabo” che spaziava dal Sinai all’Irak e dall’Arabia alla Siria. Con una tale proposta, lo sharīf decise di inviare il figlio Fayṣal a Damasco, perché prendesse segretamente contatto con i vari notabili arabi per concordare una rivolta generale.
La rivolta scoppiò nel novembre del 1916, finanziata e supportata dai britannici, che speravano che le forze fresche arabe avrebbero potuto ostacolare l’esercito turco mentre le truppe inglesi e coloniali puntavano ad invadere l’Irak e la Palestina.
Per tutto il 1916 e il 1917 gli alleati erano rimasti frustrati dalla resistenza turca che, nonostante le incursioni arabe e la sproporzione di forze (88.000 contro 35.000), manteneva Gaza, Gerusalemme e Baghdad grazie alle intuizioni strategiche del generale tedesco per l’Oriente, Erich von Falkenhayn.
Solo nel tardo 1917, dopo ulteriori rinforzi e il cambio di leadership al comando con la nomina del generale Allenby, i britannici colsero la prima vittoria a Beersheba, presero Gaza dopo tre battaglie e infine entrarono trionfalmente in Gerusalemme, il 9 dicembre 1917.
Fu in questa fase che l’apporto arabo iniziò ad essere un serio disturbo alle armate ottomane dell’area, sempre più deboli e disorganizzate. Dai deserti di Arabia, Giordania e Siria i beduini guidati da Fayṣal e Lawrence costrinsero i soldati turchi ad abbandonare le linee più esposte, a proteggere con ingenti forze i rifornimenti (sottraendo unità sempre più vitali al fronte) e a chiudersi nelle fortezze senza intralciare l’avanzata alleata, che poté muoversi con tutto agio, preparando l’offensiva finale senza temere imboscate.
Le truppe arabe combattenti di Faysal contavano elementi tribali e volontari più acculturati, impregnati di quella cultura europea pregna di ideali nazionalistici che erano causa del conflitto. Queste forze irregolari, ma ben armate e rifornite dai britannici, colsero il primo grande successo nel luglio del 1917, con la presa dello strategico porto di ʿAqaba, sul Mar Rosso. Da quel momento, in un’epopea romantica ed eroica, il colonnello T.E. Lawrence, col suo nomignolo quasi vittoriano di Lawrence d’Arabia, inanellò una serie di successi fatti di spericolate incursioni, colpi di mano, sabotaggi di linee ferroviarie e combattimenti più in stile guerriglia che tradizionali, un po’ come aveva fatto Garibaldi durante le guerre d’indipendenza italiane.
A questo punto, dopo un anno di preparazione, nel settembre 1918 venne scatenata la battaglia di Megiddo – luogo che evocava l’armageddon finale della tradizione abramitica -, che comportò la disfatta e distruzione dell’intera settima armata ottomana, con conseguente avanzata dei britannici di Allenby e gli alleati arabi di Fayṣal e Lawrence fino a Damasco.
Il 30 ottobre, circondato da nemici vincitori su tutti i fronti, l’Impero Ottomano firmava l’armistizio a Mudros, che chiude la fase bellica in Medio Oriente, oltre che mettere la pietra tombale sul dominio turco in tutte le terre a sud dell’antica città di Antiochia.
Lawrence, grande appassionato e cultore del mondo arabo, specialmente legato al retaggio omayyade, era idealmente convinto che gli arabi con cui aveva combattuto meritassero una propria grande Nazione, come era stata loro promessa nel 1915. I fatti, però, sconfessarono cinicamente ogni buon proposito del colonnello.
Gli accordi Sykes-Picot, presi tra Francia e Gran Bretagna, puntava segretamente a spartirsi in modo arbitrario i territori più interessanti da un punto di vista strategico ed economico degli sconfitti Imperi Centrali, come le loro colonie o i territori più lontani. Per quanto riguarda il Medio Oriente, la Siria e il Libano – promessi a Fayṣal – sarebbero passati sotto il dominio francese, mentre l’intero Irak, la Giordania e la Palestina sarebbero entrate nell’orbita britannica.
Il povero Faysal guidò la delegazione araba alla Conferenza di pace di Parigi del 1919, dove cercò di far valere le promesse fatte all’epoca da Sir Henry McMahon. Frustrato dalla sordità dei suoi interlocutori, nel 1920 cercò, con un colpo di mano, di creare un libero regno di Siria, ma il suo dominio venne spazzato via dalla reazione francese, che lo scacciò da Damasco. I britannici, allora, cercarono di compensarlo con la corona dell’Irak, che avrebbe governato per loro conto.
Anche le vicende del suo compagno d’armi britannico, T.E. Lawrence, furono dense di delusioni. Frustrato dalle decisioni post-belliche, che tradivano le promesse fatte (con cui lui stesso si era impegnato sinceramente per convincere gli arabi alla rivolta), il colonnello mise in atto una serie di gesti eclatanti come le dimissioni dalla carica di consigliere politico degli Arabian Affairs, il rifiuto della carica di Viceroy e Governor-General dell’India e perfino della prestigiosa Victoria Cross (la massima onorificenza militare britannica) proprio mentre Sua Maestà stava per consegnargliela, lasciando lo sbigottito sovrano George V del Regno Unito letteralmente “con la scatola in mano”.
Ritiratosi disgustato a vita privata come un eroe romantico frustrato dal destino avverso, cercò di vivere una vita ritirata dove scrisse le sue memorie in stile poetico, nel libro denominato The Seven Pillars of Wisdom (i Sette Pilastri della Saggezza). Tormentato dall’immensa fama che si era creata intorno alla sua figura, creò numerosi alias per sfuggire ai tanti curiosi fino alla morte – la cui dinamica secondo alcuni non era troppo chiara –, avvenuta in un banale incidente con la moto, nel 1935.
Forse anche la sua scomparsa, a poco meno di cinquant’anni, esaltò ancora di più il mito, che si è rafforzato con film, documentari e libri a non finire. Una delle ultime figure che apparteneva culturalmente al secolo precedente, fatto di esotismo, avventura e imperialismo britannico, ma che visse in anni dove la realpolitik spazzava via i sogni e le aspirazioni non solo di singoli individui, ma di popoli interi.
Alberto Massaiu
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