“Molte e grandi, pertanto, sono le imprese della vostra città che noi ammiriamo e che sono scritte qui, ma fra tutte, ve n’è una che le supera per grandezza e valore: dicono infatti le scritture quanto grande fu quella potenza che la vostra città sconfisse, la quale invadeva tutta l’Europa e l’Asia nel contempo, procedendo al di fuori dell’Oceano Atlantico.
Allora infatti quel mare era navigabile, e davanti a quell’imboccatura che, come dite, voi chiamate colonne d’Ercole, aveva un’isola e quest’isola era più grande della Libia e dell’Asia messe insieme: partendo da quella era possibile raggiungere le altre isole per coloro che allora compivano le traversate, e dalle isole a tutto il continente opposto che si trovava intorno a quel vero mare.
Infatti tutto quanto è compreso nei limiti dell’imboccatura di cui ho parlato appare come un porto caratterizzato da una stretta entrata: quell’altro mare, invece, puoi effettivamente chiamarlo mare e quella terra che interamente lo circonda puoi veramente e assai giustamente chiamarla continente.
In quest’isola di Atlantide vi era una grande e meravigliosa dinastia regale che dominava tutta l’isola e molte altre isole e parti del continente: inoltre governavano le regioni della Libia che sono al di qua dello stretto sino all’Egitto, e l’Europa sino alla Tirrenia. Tutta questa potenza, radunatasi insieme, tentò allora di colonizzare con un solo assalto la vostra regione, la nostra, e ogni luogo che si trovasse al di qua dell’imboccatura.
Fu in quella occasione, Solone, che la potenza della vostra città si distinse nettamente per virtù e per forza dinanzi a tutti gli uomini: superando tutti per coraggio e per le arti che adoperavano in guerra, ora guidando le truppe dei Greci, ora rimanendo di necessità sola per l’abbandono da parte degli altri, sottoposta a rischi estremi, vinti gli invasori, innalzò il trofeo della vittoria, e impedì a coloro che non erano ancora schiavi di diventarlo, mentre liberò generosamente tutti gli altri, quanti siamo che abitiamo entro i confini delle colonne d’Ercole.
Dopo che in seguito, però, avvennero terribili terremoti e diluvi, trascorsi un solo giorno e una sola notte tremendi, tutto il vostro esercito sprofondò insieme nella terra e allo stesso modo l’isola di Atlantide scomparve sprofondando nel mare: perciò anche adesso quella parte di mare è impraticabile e inesplorata, poiché lo impedisce l’enorme deposito di fango che vi è sul fondo formato dall’isola quando si adagiò sul fondale”
Queste sono solo alcune delle parole con cui Platone, più di due millenni fa, citò per la prima volta la storia di Atlantide. Ci troviamo all’interno del Timeo, uno dei due dialoghi attraverso i quali il filosofo tratteggiò i confini di un mito senza tempo.
Ci troviamo ad Atene, tra il 360 e il 350 a.C., e Platone ha appena completato due testi che faranno versare molti più fiumi d’inchiostro rispetto a tutti i suoi ragionamenti filosofici. L’intento del filosofo era quello di insegnare, attraverso una storia fittizia e fantasiosa, come avrebbe dovuto comportarsi la sua città per sopravvivere ai tempi difficili che stava passando. Giusto quarant’anni prima la superba Atene, padrona dell’Egeo, era stata duramente sconfitta nella sanguinosa guerra del Peloponneso, un’ecatombe che aveva fatto tramontare per sempre il suo sogno egemone su tutte le poleis greche. Ancora pochi anni e il suo miglior allievo, Aristotele, avrebbe insegnato ad Alessandro, figlio di Filippo il macedone, futuro conquistatore del mondo conosciuto, Atene compresa. Era indubbiamente un momento turbolento, che si ritrova chiaramente nella storia che vi andremo a riportare.
Il Timeo e il Crizia sono due classici dialoghi platonici. Abbiamo una conversazione tra Socrate, maestro di Platone, il pitagorico Timeo di Locri, Ermocrate e Crizia che parlano di come dovrebbe essere la città ideale. Ad un certo punto della narrazione Crizia decide, per avvalorare il suo punto, di raccontare un’antica storia riferitagli da suo nonno. Quest’ultimo non era un testimone qualsiasi, si trattava nientemeno che di Solone, lo statista ateniese che aveva rifondato le istituzioni democratiche della città dopo la tirannide di Pisistrato.
Dopo aver fatto tutto questo lavoraccio, Solone si era infine preso una meritata vacanza, viaggiando di qua e di là nel Mediterraneo. In uno dei suoi soggiorni in Egitto aveva incontrato un sacerdote egiziano, tale Sonchis, che gli aveva rivelato che 9.000 anni prima i suoi avi ateniesi avevano combattuto contro una potente e superba nazione, gli atlantidi, ricacciandoli indietro e liberando così l’Europa e l’Asia dal loro gioco.
Purtroppo, nonostante la vittoria, nessuno aveva potuto gioire, in quanto gli dei, incolleriti dalla corruzione del popolo di Atlantide, avevano scatenato le forze della natura contro questi ultimi. Non erano andati tanto per il sottile e tra inondazioni, terremoti ed eruzioni devastanti avevano si inabissato l’isola, ma allo stesso tempo avevano travolto l’esercito ateniese e tutta l’umanità, facendola regredire e ripartire così da capo.
Il sacerdote aveva spiegato a Solone che gli egizi, stirpe antica e con una cultura millenaria, avevano conservato nei loro archivi tutta la vicenda per secoli e secoli e per tale ragione poteva essere così preciso e dettagliato dopo tanto tempo. Difatti Sonchis procede poi a descrivere la bellissima isola, con tanto di geografia, urbanistica, flora, fauna, sistema politico e sociale, cultura e così via. Un racconto entusiasmante, fascinoso, esotico, capace di riempire di una passione febbrile chiunque lo abbia studiato.
È infatti senza alcun ombra di dubbio che il mito – ma lo sarà veramente, solo un mito? – di Atlantide ha da quel momento in poi affascinato migliaia di letterati, artisti, studiosi, linguisti, antropologi, esoteristi e anche persone comuni, attratte da questa civiltà potente e misteriosa, tragicamente scomparsa all’apice della sua gloria, in un cataclisma naturale di immani proporzioni.
Ma procediamo con ordine. Tutto parte con Platone che riporta un dialogo avvenuto davanti a lui quando doveva avere circa una ventina d’anni. Socrate, il suo maestro, l’aveva portato ad una cena o simposio con altri tre personaggi che stavano facendo la storia del loro tempo: Timeo, Ermocrate e Crizia. Come era d’uso all’epoca, la conversazione spaziava su tanti temi e spesso, per rafforzare un’argomentazione, si riportavano aneddoti o storie risalenti alla mitologia o al passato. Queste due categorie a noi razionali uomini moderni ci sembrano ben diverse una dall’altra, ma a quei tempi la faccenda non era così semplice. In ogni mito ci stava sempre un fondo di verità storica, o almeno un ricordo, una memoria di quanto accadde realmente, che poi veniva infiocchettato a seconda dell’abilità o della necessità espressa dall’oratore di turno.
Ora, la storia riportata da Crizia nei minimi dettagli è il racconto di un racconto – con Platone fanno tre step, cosa che non ci aiuta a capire quanto “adattamento” ci sia stato tra un passaggio e l’altro -, risalente per la precisione a oltre 150 anni prima. Infatti un lontano avo di Crizia, Solone, si era recato in Egitto a fare il testimonial d’eccezione alla corte del faraone – scroccando anche una vacanza di lusso da quelle parti – e, tra un consiglio politico e uno economico, aveva conosciuto anche diversi membri della casta sacerdotale di quel paese. Uno di questi, Sonchis, gli aveva raccontato tutta la vicenda nei dettagli e voilà!
Che cosa possiamo desumere dai dialoghi del Timeo e del Crizia? Che c’era una grandissima isola, nell’Oceano Atlantico, che era piena di risorse e abbastanza grande da avere un clima temperato con forse alcuni accenni di tropicale o sub-tropicale – vi abitavano anche degli elefanti -. Stava al di là delle Colonne d’Ercole e che la gente che vi abitava era incredibilmente evoluta e sofisticata. Lavoravano i metalli, sapevano navigare e costruire navi di grandi dimensioni e aveva un pantheon di divinità al cui vertice stava Poseidone. La loro civiltà era al massimo sviluppo 9.000 anni prima dell’epoca di Solone – 550 a.C. circa – e quindi, se abbiamo fatto bene i calcoli, 11.500 anni prima della nostra epoca.
Ultimo punto, il più cruciale, la fine della loro epopea: disastri naturali repentini, improvvisi, devastanti, tali da spazzar via una cultura che aveva conquistato la quasi totalità dell’Asia e dell’Europa, come ci riporta Platone, che andavano ad aggiungersi alla loro terra natale.
Ora di teorie su Atlantide ce ne stanno a bizzeffe, da quelle che trattano di alieni fino alle cosiddette “regionalistiche”, che la posizionano nel Mediterraneo, nell’Oceano Atlantico o Pacifico e perfino nei gelidi mari scandinavi. Noi andremo a scavare in quelle che ci sembrano più affascinanti e lasciamo piena libertà a chiunque di vederci quello che preferisce.
La classica: Atlantide era un’isola vera e propria, immensa, composta da una parte del fondale oceanico atlantico che migliaia di anni fa stava al di sopra del livello del mare. A causa di movimenti tellurici questa si è inabissata in un lasso di tempo rapidissimo, lasciando solo pochissimi resti dietro di sé, come le isole Azzorre e forse le Canarie. La maggior parte dei geologi smentisce questa tesi, affermando che il fondale oceanico non si è mai smosso da dove sta attualmente, tantomeno che da così pochi anni – eh si, 10.000 anni sono un battito di ciglia per il geologo medio – e in modo tanto repentino. I suoi punti di forza sono i resti di piccole strutture simili a piramidi scoperte sulle Canarie e alcune statue di guerrieri, re o sacerdoti che furono trovate dai primi navigatori portoghesi che vi sbarcarono tra il 1400 e il 1500.
Ma ancora più misteriosa fu la risposta data agli spagnoli più curiosi, che chiesero agli indigeni delle Canarie chi avesse costruito le piccole piramidi. La risposta fu “Furono degli dei bianchi, arrivati dall’occidente, dal mare, tanti e tanti anni fa”. Ora, l’unica civiltà a noi conosciuta che poteva, in passato, esser sbarcata nelle Canarie – e forse anche nelle Azzorre, ma li i portoghesi non trovarono alcun abitante alla loro epoca – è quella cartaginese. Ma se dei cartaginesi è risaputo che effettivamente viaggiassero per commerciare fino al golfo di Giunea a sud e fino all’attuale Inghilterra a nord, non possiamo utilizzarli per confermare il racconto degli indigeni delle Canarie, in quanto sarebbero stati dei bianchi arrivati da est, non da ovest!
In più, a parte dei vecchi testi del XIX secolo che ci raccontano dei resti trovati nelle Azzorre e che ci parlano perfino di una statua a cavallo, ora non ci è rimasto nulla, probabilmente distrutto per paura o ignoranza poco dopo la loro scoperta.
Per quanto affascinante, mettiamo quindi da parte la visione atlantica e passiamo a quella mediterranea: abbiamo due location e due situazioni differenti da analizzare. La prima riguarda la civiltà minoica, stanziata a Creta e a Santorini, la seconda invece riguarda nientemeno che la Sardegna.
Per i minoici abbiamo molti aspetti interessanti: innanzitutto gli egizi conoscevano molto bene i minoici visto che ci avevano commerciato assieme per secoli; in più la civiltà minoica si sviluppava su più isole, ma la base principale era a Creta, che aveva grandi palazzi, una possente flotta e una fiorente economia. Aveva colonie, basi commerciali, un esercito, una religione e una cultura sofisticata, una scrittura che ancora non riusciamo a decifrare con facilità. In più subì dei devastanti danni da parte della natura, soprattutto quando Thera, un’isola sotto il suo dominio, esplose nel 1627 a.C. a causa dell’eruzione del suo vulcano, facendone inabissare una parte e sollevando un’onda di maremoto di tali proporzioni da distruggere le città costiere della Grecia e soprattutto di Creta, causato morte e distruzione molto simile a quella descritta da Platone. In più, sempre se vogliamo leggere i miti in chiave storica, il Re Minosse, sovrano di Creta, aveva guerreggiato e combattuto contro Atene, alla quale richiedeva il famoso tributo di giovani per il suo abominevole figlio, il Minotauro.
Sono quindi tantissimi i tasselli che potrebbero condurci proprio ai minoici, ma qualcosa non c’entra ancora. Primo tra tutti il fatto che, dato che gli egizi conoscevano tanto bene i minoici, li avrebbero appellati con il loro nome, non con quello fantasioso di atlantidei; in più Sonchis parla di Oceano Atlantico, al di là delle Colonne d’Ercole, spartiacque di rilievo per il mondo antico. In ultimo abbiamo la finestra temporale. Platone riporta una data veramente antica, il 9500 a.C., che ci allontana parecchio dalla triste fine della civiltà minoica. A questo punto le opzioni sono tre: o gli egizi non ne capivano nulla sul calcolo degli anni – e noi sappiamo invece che erano estremamente bravi e competenti proprio in quel campo, come in astronomia – , oppure nelle traduzioni greche si è sbagliato nel riportare i numeri e i toponimi geografici, o infine Sonchis ha voluto burlarsi del povero Solone, con una sparata assurda e senza senso.
Bene, se non Creta, allora come mai abbiamo parlato di Sardegna? Questa è una teoria recente, esposta dal giornalista di Repubblica Mario Frau, che ha spostato il baricentro della ricerca nel Mediterraneo occidentale. Partendo dal presupposto che nell’epoca precedente a Solone i greci si smezzavano il nostro mare con i fenicio-punici, Mario Frau ha collocato le Colonne d’Ercole all’altezza della Sicilia – territorio diviso tra queste due civiltà -, collocando l’Okeanos antico nella parte di Mediterraneo che non ricadeva sotto la loro influenza. I resti della civiltà atlantidea sarebbero individuabili nei pozzi sacri, nel tempio a Ziggurat di Monte d’Accoddi, nei nuraghi e nelle tombe dei giganti, simbolo di una civiltà evoluta e potente, che padroneggiava tecniche di costruzione superiori e antecedenti temporalmente alle tombe micenee e perfino alla fondazione di Cartagine e di Roma. Questo è un dato storico, visto che la civiltà che innalzò il tempio a Ziggurat era in piena fioritura tra il IV e il III millennio a.C. e quella nuragica perdurò dal II fino alle guerre con i cartaginesi e i romani.
Per quanto la teoria di Frau sia anch’essa affascinante, tanto da meritare una ricerca più approfondita, anche questa cade nella datazione temporale, troppo distante dai nostri 11.500 anni.
Per indagare su questi ultimi dobbiamo andare molto lontano nel tempo e nello spazio, più precisamente alla fine della nostra ultima era glaciale. In più dobbiamo scomodare perfino i miti sparsi per il mondo, che ci narrano del più grande cataclisma riconosciuto dalla storia dell’uomo: il diluvio universale.
Cosa mi rispondereste se vi dicessi che da ogni parte del mondo, tra tutti i popoli che sono riusciti a tramandare in via orale o scritta dei miti o delle leggende, esiste il ricordo di un’immane, catastrofica e distruttiva inondazione? Per pioggia, per maremoti o veri e propri tsunami, ogni civiltà, fino alla più piccola tribù, narra di un epoca di tribolazioni e sofferenza, dove la specie degli uomini quasi si estinse a causa della collera degli dei o della natura.
Il mito ebraico del diluvio e dell’arca di Noè, quello greco di Deucalione e Pirra, ma anche gli egizi, i sumeri, gli assiri, i babilonesi, diversi popoli africani, gli indiani, i polinesiani, gli asiatici, gli indios americani maya, inca, aztechi e perfino gli indiani delle pianure statunitensi. Tutti, nessuno escluso, citano questo cataclisma lontanissimo.
Che sia un ricordo di un evento veramente realizzatosi, non citato dalle fonti storiche ma tramandato nella memoria collettiva del genere umano? L’evento più traumatico che l’homo sapiens ha dovuto affrontare nella sua esistenza è stato il passaggio dell’ultima era glaciale? Vi sembrerà ancora più strano ma sapete quando è avvenuto questo momento? Esattamente tra i 12.000 e i 10.000 anni fa, esattamente nell’epoca indicata dal sacerdote egizio a Solone.
Ma voi mi chiederete, visto che vi parlo di date, come fosse possibile che gli egizi sapessero di tali avvenimenti, visto che andandoci proprio larghi le prime piramidi le edificarono tra il 3.000 e il 2.500 a.C., assieme alla grande Sfinge con il volto dei faraoni? Ma sarà vera questa cosa della Sfinge? Infatti quest’ultima ha dei chiari segni di erosione, ma non quelli tipicamente riscontrabili in un clima desertico, ovvero levigati orizzontalmente dal vento, bensì quelli ampi e arrotondati dall’alto verso il basso, tipici dell’effetto prolungato di grandi e costanti piogge.. Nel deserto egiziano? Non di sicuro col clima che abbiamo là oggi, ma tutto era ben diverso durante l’epoca glaciale. E la testa del faraone? Beh, anche un bambino può chiaramente notare che è stata riscolpita, dato che risulta molto più piccola e sproporzionata rispetto al corpo. I faraoni egizi non sarebbero i primi né gli ultimi ad appropriarsi di un antico edificio di una civiltà precedente per riutilizzarlo con altri fini.
Probabilmente la tanto mistica sfinge in passato era la statua di un immenso leone, lasciato a memento di un mondo ormai perduto, di cui l’Egitto poteva essere solo una provincia.
Se ci pensiamo bene è quello che avvenuto con Roma, sebbene in modo meno traumatico, dopo la sua scomparsa: i vecchi edifici romani vennero riutilizzati dai barbari o dai popoli autoctoni, dimentichi delle gloriose vestigia e del significato di strade, acquedotti, terme, palazzi, anfiteatri e così via.
La stessa cosa potrebbe esser tranquillamente avvenuta in questo caso.
Ma allora quale fu la civiltà che ispirò tutte queste antiche popolazioni? Se Atlantide è mai esistita, dove si trova la sua antica capitale, in che epoca si è sviluppata e infine in che modo è scomparsa?
Abbiamo escluso assieme l’ipotesi atlantica e anche quella mediterranea, che cosa ci rimane? Forse vi sorprenderà ma un’ulteriore ipotesi, molto affascinante, è quella antartica.
L’Antartide? Il continente più inospitale di tutta la terra? Ma come sarebbe possibile visto che è invaso dai ghiacci da… Ma da quando? Partiamo da un elemento ancora più misterioso. Per la precisione non un elemento, bensì un oggetto: una mappa.
Nel 1513, l’ammiraglio e cartografo turco Piri Reis redige una carta nautica che, pochi anni dopo la scoperta di Colombo delle Americhe, tratteggia tutta la costa del continente, compreso Brasile, Argentina e, cosa ancora più straordinaria, un tratto di costa ulteriore, più a sud, che risulta chiaramente essere l’Antartide.
Eppure il continente venne raggiunto, nella storia a noi conosciuta, solo dagli equipaggi di navi russe, inglesi e americane nel 1820 ed esplorato per tutto il XIX secolo, in decenni e decenni di avventurose e spesso mortali spedizioni che permisero di mapparlo con sempre maggior precisione.
Eppure troviamo mappe su mappe che, perfino da prima della scoperta di Colombo, mostrano questo grande continente a meridione di Africa e Sud America, con insenature, fiumi, montagne che solo recentemente, grazie ai satelliti e a foto dallo spazio, siamo riusciti ad individuare sotto ai ghiacci.
Ora, scartando l’ipotesi di civiltà aliene che in epoca remota abbiano raggiunto la terra, cosa ci rimane? Il nostro homo sapiens, che, raggiunto il suo stadio di evoluzione attuale circa 40.000 anni fa, potrebbe non esser stato così pigro per 36.000 anni per poi ingranare la quarta negli ultimi 4.000. Traduco: non può esser rimasto all’età della pietra fino all’alba delle piramidi e degli ziqqurat per poi passare alla nanotecnologia e all’era nucleare in una manciata di millenni.
Non potrebbe esser più probabile che, in epoche passate, l’uomo abbia avuto dei momenti dove si è elevato al di sopra del suo stato primitivo, per poi esservi ricacciato da sommovimenti climatici e catastrofi ambientali d’immani proporzioni?
Tutte le civiltà antiche, come gli egizi, i mesopotamici e i maya, parlavano di ere del mondo, dove l’uomo aveva subito tutta una serie di castighi divini che lo avevano portato quasi all’estinzione. L’ultimo di questi era stata una tremenda alluvione o inondazione, unita ad un grande movimento tellurico. Insomma tsunami e terremoti assieme. Dal caos in cui era sprofondata la terra arrivarono degli uomini (in America da oriente, in Africa, Asia ed Europa da occidente), sopravvissuti al disastro della loro terra natia, con una conoscenza e una cultura superiore, che avevano aiutato l’uomo a ripartire da zero.
Che questi miti, compreso quello del diluvio, siano il ricordo di questa catastrofe? E quando avvenne?
Tutto sembra ricondurre all’ultima era glaciale, che si concluse proprio in quelle fatali date tra i 12.000 e i 10.000 anni fa. All’epoca l’asse della terra era spostato in maniera differente e la calotta di ghiaccio ai poli ricopriva solo in parte l’Antartide e l’Artide, che si trovavano molto più spostati rispetto ad oggi.
Una buona parte dell’Antartide, che al contrario del Polo Nord ha una massa continentale sotto la neve con tanto di laghi, fiumi, montagne e valli, un tempo doveva esser libero dalla morsa del freddo, probabilmente con un clima anche temperato in alcune delle sue parti e quindi perfetto per lo sviluppo di una civiltà.
Non potrebbe essere quindi la culla di quella che, millenni dopo, Platone ricordò in maniera poetica e con fini filosofico-pedagogici nei sui dialoghi del Timeo e del Crizia?
E quanto era approfondita la conoscenza di queste cose in passato, visto che Piri Rais, l’ammiraglio turco, nel suo commento alla straordinaria mappa aveva riportato che non aveva mai visitato i luoghi mappati, ma che si era servito di vecchi mappe risalenti all’epoca di Alessandro Magno che aveva ritrovato in vecchi archivi a Costantinopoli?
E quanto sapevano i dotti egizi e greci, che avevano raccolto tutta la conoscenza del loro tempo nella grande biblioteca d’Alessandria, distrutta dai cristiani nel IV secolo d.C.? E ancora quante mappe e informazioni si trovavano negli archivi della marina cartaginese sulle esplorazioni atlantiche, che vennero distrutte dai romani quando rasero al suolo la città punica nel 146 a.C.?
Purtroppo abbiamo veramente troppe poche fonti per sapere cosa avvenne in quei tempi lontani. Rimangono solo i miti e le leggende, oltre che i resti spesso inspiegabili dalla storiografia tradizionale.
Alberto Massaiu
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