Lo Shintoismo è la religione ancestrale del Giappone. Si potrebbe definire come un culto “nazionale”, in quanto è strettamente connesso a questo popolo e non si è mai diffuso all’estero, come invece fece il Buddhismo, tranne che nel periodo dello Shinto di Stato – tra la fine del XIX secolo e il 1945 -, dove venne imposto in Corea e nell’Hokkaido come mezzo di assimilazione culturale.
È una religione politeista con tratti sciamanici, con un’origine animista (tipo di culto in cui vengono attribuite qualità divine o soprannaturali ad oggetti, luoghi o esseri materiali) che deriva, con buona probabilità, dal periodo in cui gli antenati dei primi colonizzatori delle isole del Sol Levante risiedevano nelle steppe della Mongolia.
Con le dovute differenze, richiama i modelli religiosi dei popoli Indoeuropei, incentrati su pantheon di alcuni dei superiori e una quantità virtualmente infinita di divinità, creature ed entità che abitano sia nel mondo umano che in quello sovrannaturale.
Gli dei in Giappone sono chiamati kami, considerati come entità spiritiche che popolano tutto l’universo. Per il fedele shintoista un fiume, una monte (ad esempio il Monte Fuji, con il suo vulcano, è tradizionalmente considerato un potente dio) o semplicemente una pianta, possono essere considerati come espressione dei kami o di elementi mistici in grado di porre in contatto con la sfera divina.
I kami sono collettivamente chiamati Yaoyorozu no Kami, che letteralmente significa “Otto milioni di kami“. Il numero arcano di otto milioni non è il numero esatto, ma piuttosto un modo simbolico di indicare l’infinito in un’epoca in cui questo concetto non esisteva.
Un po’ come nel mondo egizio, greco-romano, celtico e norreno, anche qua esistono delle entità maggiori, come la dea del Sole Amaterasu, che nella tradizione nipponica ha dato vita alla linea di discendenza della famiglia dell’Imperatore, detto Tennō. Per questo, perlomeno fino al 1946, il sovrano era considerato in tutto e per tutto un kami incarnato in forma umana e come tale era oggetto di venerazione.
La dea Amaterasu, infatti, è la divinità più invocata del paese, con un tempio principale ad Ise e numerosissimi templi minori sparsi per tutto l’arcipelago.
Sempre ricollegandoci alle nostre radici precristiane, anche i nipponici hanno l’equivalente di creature fantastiche o entità spirituali varie positive o negative: gli ujigami, ad esempio, proteggono specifici luoghi, località o paesi; i dosojin e i dorokujin sorvegliano i viandanti; anche gli antenati, se morti senza problemi, in felicità o meglio ancora dopo aver compiuto grandi imprese, diventano spiriti protettori o tenjin; vi sono poi creature fatate zoomorfe come i komainu, i cani-leoni importati dalla tradizione cinese e posti a difesa dell’entrata dei templi per allontanare gli spiriti maligni, oppure i tanuki (simili a procioni, in genere portatrici di fortuna) o i tengu, uccelli con fattezze umane. Queste creature sono spesso muta-forma, perciò possono interagire con gli umani, aiutandoli oppure giocando scherzi per noia o capriccio.
Vi sono però anche spiriti pericolosi come le yurei, sorta di fantasmi di chi è morto in maniera violenta o comunque infelice. Il termine significa “anime tormentate” e perciò, se non calmate con preghiere e offerte, potrebbero creare problemi e gettare sortilegi o maledizioni; allo stesso modo esistono i mizuko, spiriti di bambini morti in tenera età che, se non placati, scatenano pestilenze o altri danni.
Vi sono infine gli yokai, tradotto spesso con demoni, per quanto non siano necessariamente malvagi. La loro è una categoria ampia e dai contorni non be definiti, che vive in un mondo a metà tra il nostro e quello spirituale, perciò hanno contatti sporadici con gli umani.
Nello Shintoismo non esiste una punizione ultraterrena, un giudizio universale o simili, perciò non vi è una particolare preoccupazione rispetto alla vita dopo la morte. Piuttosto, influenzato dalla sua matrice animista e dalle influenze buddhiste, questa religione si focalizza nel trovare l’armonia, la pace e la virtù in questo mondo. Per un fedele Shinto lo spirito umano è eterno, proprio come i kami. L’aldilà è perciò concepito come una sorta di livello esistenziale superiore. Quando si muore, dunque, si cambia semplicemente forma di esistenza, passando da quella terrena ad un’altra spirituale. Forse è anche per questo motivo che il suicidio, in Giappone, è più diffuso rispetto che da noi, visto che lo spartiacque tra le due esistenze non comprende il rischio di punizioni o rischi eterni.
A questo si unisce una forte componente superstiziosa, tipica dello sciamanesimo, con una sterminata collezione di rituali e metodi, intesi a mediare le relazioni tra gli esseri umani e i kami. La purificazione prima di entrare in un tempio mediante lo sciacquo di mani e bocca dalle apposite fontane, l’utilizzo di frasi di ringraziamento prima di mangiare, i gesti devozionali quasi meccanici, sono tutti modi per tener buoni i kami, rispettando l’equilibrio e l’armonia del cosmo. In questo sono identici al mondo romano, attento in maniera ossessiva a rispettare la pax deorum mediante rituali da compiere con scrupolosa perfezione in ogni dettaglio, per evitare la disapprovazione degli dei. La ricerca dell’equilibrio è presente ancora oggi, persino nelle aziende: chi viene sconfitto o ucciso (anche metaforicamente) può provocare rancore o urami, che si può tramutare in aragami, spiriti potenti e malvagi che cercano vendetta. Perciò nelle imprese giapponesi si cerca di non intraprendere alcuna azione prima che venga raggiunto un consenso e una consapevolezza unanime.
Altri due aspetti interessanti del credo Shinto sono la purificazione e l’attenzione per la natura in tutte le sue manifestazioni. Relativamente al primo punto è importante dire che ogni avvenimento importante, come la costruzione di un nuovo edificio o di un nuovo modello di macchina o aeroplano, vengono in genere conclusi con una sorta di benedizione. Elemento cardine in questo rituale è l’acqua – un po’ come in tutte le religioni moderne e del passato – a cui si può associare anche il sale, forse per la sua capacità di preservare le cose deperibili. Ad esempio si possono spesso notare, all’ingresso delle case, dei contenitori di sale chiamati mori shio, che si crede abbiano l’effetto di purificare chiunque entri nell’abitazione.
In quanto alla natura, è quasi scontato dire che in una religione animista-sciamanica, che crede che in ogni cosa sia presente un kami – persino in oggetti creati dall’uomo come automobili, aerei e robot -, è importante la preservazione del mondo. Le città giapponesi hanno perciò al loro interno, persino nelle immense metropoli di Tokyo e Osaka, degli spazi di verde intatti, che racchiudono in genere templi e santuari in una bellezza fascinosa e onirica.
Ultimo aspetto interessante è il culto domestico, che funziona come quello per i Lares e Penates della tradizione romana, ma anche nella sua sublimazione cristiana del tenere santi e santini in casa. Nella casa giapponese è comune il vedere altarini chiamati kamidana o “mensola dei kami” dove si trovano riposti specchi (che indicano la presenza di un nume tutelare), amuleti, porta incensi e piccole offerte votive come sale, acqua o riso.
Tutte queste caratteristiche conferiscono allo Shintoismo un carattere di completezza semplice ed efficace, caratteristiche che gli consentono di sopravvivere tutt’oggi, facendone una religione importante e millenaria.
I giapponesi non hanno mai avuto la necessità di trovare un nome per il loro complesso di credenze fino all’arrivo del Buddhismo nell’arcipelago, all’incirca tra il VI e il VII secolo d.C. Shinto vuol dire “La Via del Divino” ed è stata nei secoli molto influenzata dalla religione d’importazione cinese, fondendosi con essa in quella straordinaria modalità sincretica che era tipica del mondo antico anche da noi, dove nelle grandi metropoli come Roma, Cartagine o Alessandria avremmo potuto trovare templi dedicate a Zeus-Hammon, Isis, Ishtar, Kybele, Dionysos- Osiris, Aphrodite-Astarte, Mithra.
Con l’introduzione del Buddhismo e la sua rapida adozione a corte, divenne necessario spiegare l’apparente differenza tra il credo nativo giapponese e i nuovi insegnamenti d’oltremare. Questi ultimi non penetrarono spazzando via la precedente fede nipponica, ma al contrario contribuirono al suo consolidamento. Esso legittimò infatti tutti gli dei giapponesi, considerandoli come entità sovrannaturali intrappolate nel ciclo delle rinascite.
Buddha stesso venne integrato e digerito nel sistema Shinto, diventando un grande kami a se stante oppure considerando i vecchi kami come incarnazioni speciali del Buddha stesso (perfino Gesù Cristo, quando venne introdotto in Giappone dai missionari portoghesi nel tardo XVI secolo, venne qualificato come un kami).
La coesistenza e amalgama di Buddhismo e Shintoismo ebbe larga diffusione fino alla fine del Periodo Edo, nel XIX secolo. In seguito alla Restaurazione Meiji lo Shintoismo venne proclamato religione ufficiale del Giappone e nel 1868 la sua combinazione con il Buddhismo venne resa illegale. In questo periodo molti studiosi e politici iniziarono a vedere lo Shinto come mezzo attraverso cui unificare il Paese ed aumentarne la devozione all’imperatore, per velocizzare il più possibile il processo di modernizzazione.
Nel 1871 venne istituito un Ministero delle divinità e i templi shintoisti vennero divisi in dodici livelli con sede centrale al tempio di Ise, dedicato ad Amaterasu e perciò legato a doppio filo con il culto della famiglia imperiale. Negli anni seguenti il Ministero delle divinità venne rimpiazzato da una nuova istituzione, il Ministero della religione, incaricato di guidare l’istruzione allo shushin o sentiero morale.
I preti iniziarono ad essere eletti ufficialmente, retribuiti ed incaricati dallo Stato di istruire i giovani attraverso una forma di teologia shintoista basata sulla storia mitologica della casata imperiale e della patria giapponese.
Con il passare del tempo lo Shintoismo venne avviluppato nel nazionalismo, con pratiche quali l’obbligo per gli studenti di recitare ritualmente il giuramento di offrire sé stessi coraggiosamente allo Stato, così come di proteggere la famiglia imperiale. Questo utilizzo “etnico” della religione diede al patriottismo giapponese una tinta di misticismo speciale e di introversione culturale, che rafforzò la certezza dei giapponesi di essere il popolo eletto, destinato a dominare il mondo.
Questo processo terminò bruscamente nell’agosto 1945, con la separazione tra Stato e Chiesa shintoista, la fine di una guerra catastrofica che aveva ridotto in cenere il paese e il ridimensionamento della figura imperiale nella politica nipponica, che virava verso una democrazia sorvegliata dagli americani.
Da quel momento lo Shintoismo, staccato dalla propaganda xenofoba e nazionalista, tornò alla sua condizione precedente, di aiuto all’essere umano nella ricerca dell’armonia e di una vita felice e serena, mantenendo buone relazioni con gli antenati e i kami. Ad oggi questa religione continua ad essere uno dei pilastri della civiltà nipponica, i cui valori rimangono una componente fondamentale della vita e della mentalità del popolo del Sol Levante.
Alberto Massaiu
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[…] “Nello Shintoismo non esiste una punizione ultraterrena, un giudizio universale o simili, perciò non vi è una particolare preoccupazione rispetto alla vita dopo la morte. Piuttosto, influenzato dalla sua matrice animista e dalle influenze buddhiste, questa religione si focalizza nel trovare l’armonia, la pace e la virtù in questo mondo.” (Alberto Massaiu) […]