Quello che si svolse nelle acque tra Corea e l’isola giapponese di Kyushu fu il primo scontro navale del XX secolo. Vi partecipavano la apparentemente possente ed esperta (in verità obsoleta e mal organizzata) Flotta del Baltico zarista e la giovane e aggressiva marina militare nipponica.
Stando ai numeri, non c’era storia in un’epoca dove il peso maggiore nella guerra sul mare era affidato alle corazzate, dove i russi godevano di una schiacciante superiorità numerica (quasi 3 a 1) oltre che di tonnellaggio, ma ben presto l’orso zarista si sarebbe accorto che il prestigio (la Flotta del Baltico era stata fondata dallo zar Pëtr il grande nel 1703) non valeva quanto l’addestramento, la pianificazione e la motivazione.
Per la diplomazia dell’epoca fu uno shock. Il Giappone, per quanto avesse introdotto un processo di modernizzazione e sviluppo straordinario iniziato solo poco più di trent’anni prima, aveva raggiunto un livello di forza e solidità che lo metteva alla pari delle altre potenze occidentali, anche se in pochi osservatori e diplomatici si erano accorti pienamente di questa evoluzione.
In più il senso di superba superiorità di britannici, tedeschi, francesi, russi e americani creava continue gaffe con l’orgogliosa classe dirigente nipponica, che dovette inghiottire parecchi rospi perché veniva guardata dall’alto in basso dai plenipotenziari stranieri, abituati a considerare il Sol Levante come l’ennesimo paese dell’estremo oriente al massimo da adulare e tener buono, ma non da trattare come pari.
Eppure i giapponesi avevano imparato fin troppo bene come agivano le grandi potenze dell’epoca, grazie ai viaggi che i suoi aristocratici, diplomatici, capitani d’industria e militari avevano svolto nei decenni precedenti, e puntavano ad imitarli.
Dal sistema giuridico, copiato prima dal codice napoleonico francese e poi dal Bürgerliches Gesetzbuch germanico agli impianti di industria pesante e manifatturiera, dalle ferrovie al telegrafo, dall’addestramento dell’esercito (fatto con istruttori tedeschi) e della marina (con britannici e francesi), il paese cresceva ad un ritmo impressionante e ben presto iniziò a guardare ai suoi vicini in cerca di colonie e territori da porre sotto il proprio protettorato.
Il primo obiettivo, quasi naturale, riguardava Corea e Cina. Quest’ultimo paese un tempo potente ma ora in piena crisi dopo le guerre dell’oppio contro la Gran Bretagna. Il Giappone era sempre stato formalmente un tributario del Celeste Impero, un po’ come i sovrani d’Inghilterra con i re di Francia prima della Guerra dei Cent’Anni, ma ora era finito il tempo dei teatrini diplomatici, accantonati dalla brutalità delle politiche di potenza.
Nel 1894-95 i nipponici decisero di portare avanti le loro pretese con la forza delle armi, invadendo la Corea e la Cina nord-orientale, sbaragliando in un solo giorno il meglio della flotta cinese nella battaglia del fiume Yalu.
Sembrava che ci fosse un nuovo attore pronto a prendere il posto di prima forza regionale dell’Estremo Oriente, ma il gigante russo si fece sotto in Manciuria. Per buona metà del XIX gli zar avevano partecipato a quella sfida planetaria con la Gran Bretagna che venne rinominata dagli storici come “Il Grande Gioco”, che spaziava dai principati Danubiani e gli stretti dei Dardanelli ai confini di Persia e Afghanistan, in una serie di piccole o grandi guerre localizzate combattute in quello stile vittoriano che ha fatto epoca.
Ora la Russia puntava alla ricca regione della Manciuria, dove voleva spostare la fine della Transiberiana e individuare un porto sul Pacifico utilizzabile tutto l’anno per la sua flotta. La base di Vladivostok già in suo possesso non era infatti la più adatta, in quanto gelava d’inverno, mentre la città di Port Arthur (Lüshunkou in cinese o Ryojun in giapponese), situata alla fine della penisola strategica di Liaodong, era perfetta.
Nel 1895, dopo la vittoria sulla Cina, i giapponesi ottennero con il trattato di Shimonoseki il controllo sulla Corea e sull’isola di Taiwan, oltre che la base di Port Arthur. Tuttavia, sobbillati dalla Russia, Francia e Germania intimarono al paese del Sol Levante di ritirarsi dalla penisola di Liaodong e dalla città contesa, in cambio di una compensazione di 5 milioni di sterline (che doveva pagare sempre la povera Cina). I giapponesi, furenti, fecero comunque buon viso a cattivo gioco e spesero ogni singolo centesimo per acquistare moderne navi da guerra nei cantieri britannici.
Il Celeste Impero, ormai in pezzi, si vide costretto a cedere alle pretese di Francia (che modificò i confini del Vietnam a suo favore), Germania (che “affittò” per 99 anni la baia di Jiaozhou con la città portuale di Tsingtao) e della Gran Bretagna, che fece lo stesso dei tedeschi con Hong Kong, che infatti è stata restituita alla Cina solo nel 1997.
Ma il peggio, dal punto di vista degli interessi vitali del Giappone, fu l’attività russa. Senza combattere una guerra e perdere un solo uomo, i diplomatici zaristi imposero al governo di Pechino un aumento delle concessioni ferroviarie in Manciuria, l’affitto per 25 anni di Port Arthur e la possibilità di allungare la ferrovia transiberiana fino a questa base, dove si iniziò ad installare la Flotta del Pacifico.
Tutte queste prevaricazioni fecero esplodere un fenomeno di xenofobia antioccidentale in tutto il grande paese, che venne represso nel sangue dall’Alleanza delle Otto Nazioni, dove Russia, Giappone, Francia, Gran Bretagna e Germania combatterono tutte contro il comune nemico cinese, saccheggiando la capitale e costringendo la corte Qing ad ulteriori concessioni (vedi il mio articolo sulla rivolta dei Boxer).
In quell’occasione i russi fortificarono ulteriormente Port Arthur, migliorando la ferrovia e spostando 100.000 soldati in Manciuria, cosa che terrorizzava i giapponesi, che protestarono vibratamente. I russi fecero le orecchie da mercante e i nipponici capirono che la soluzione non poteva venire che dalla guerra.
Il governo di Tokyo agì in modo scaltro, preparando non solo le armi ma anche il giusto retroterra diplomatico per non ritrovarsi su una guerra su più fronti. Sfruttando le rivalità mai del tutto sopite tra Mosca e Londra, nel 1902 venne siglata un’alleanza anglo-giapponese che stabiliva la neutralità britannica in caso di conflitto tra Russia e Giappone e il suo intervento in caso di sostegno di un’altra potenza a fianco dei russi.
L’avidità di Mosca era superiore all’avvedimento dei suoi leader militari, che rassicurarono lo zar sulla bassa pericolosità del paese del Sol Levante, che a detta loro era capace di minacciare ma non aveva l’ardire di attaccare un paese che aveva un estensione di oltre 20 milioni di km², mentre l’intero arcipelago nipponico ne contava appena 400.000.
Va detto che praticamente nessuno, in qualsiasi paese occidentale, avrebbe mai scommesso che una piccola Nazione come il Giappone avrebbe potuto mai prevalere sul gigante russo. La sorpresa, alla fine, fu immensa per tutti.
Dopo l’ennesimo tentativo di far ragionare la Russia, dove il Giappone chiedeva il riconoscimento della Corea nella sua sfera di influenza in cambio dell’affermazione che la Manciuria rimaneva fuori dalle sue pretese, chiedendo in cambio una simile dichiarazione russa, il paese mobilitò le sue risorse finanziare e militari ed emise una formale dichiarazione di guerra il 10 febbraio 1904.
A dirla tutta l’ammiraglio Tōgō aveva ricevuto l’ordine di iniziare i movimenti della flotta già 5 giorni prima, inaugurando quella tradizione tutta nipponica di compiere operazioni belliche senza prima aver avvisato gli avversari (vedi Pearl Arbour nel 1941).
Il primo obiettivo della politica giapponese fu quello di mettere fuori combattimento la flotta russa del Pacifico, prendere Port Arthur e invadere via terra la Manciuria. Ben presto i due contendenti si trovarono in stallo sul mare, perché i russi non uscivano dalla base fortificata e i giapponesi non si arrischiavano a mettere a repentaglio le loro navi moderne contro le possenti artiglierie costiere.
Ben presto, per la prima volta nella storia, i contendenti iniziarono a minare i porti nemici in chiave offensiva, portando alle prime importanti perdite. Nell’aprile del 1904 la corazzata Petropavlovsk, l’ammiraglia zarista, affondò dopo essere saltata sopra una di queste, portando con sé in poco più di un’ora il comandante dell’intera flotta Stepan Makarov, che decise di seguire romanticamente (ma a mio parere poco razionalmente) il destino della sua nave.
A questo punto la 1ª Armata nella Corea del Nord, sotto il comando di Kuroki Itei, avanzò con decisione e rapidità, penetrando in forze in Manciura, spingendo i difensori russi verso Port Arthur, dove contava di imbottigliarli e stritolarli insieme alla Flotta del Pacifico.
Il 10 agosto questa tattica pagò: la marina zarista tentò di abbandonare la roccaforte assediata per muovere nella più sicura Vladivostok, ma venne intercettata e sbaragliata nella battaglia del Mar Giallo. Le poche unità superstiti tornarono alla base navale di partenza, ora sotto il fuoco delle artiglierie di terra nipponiche. La riposta russa, nonostante la disparità di uomini e di perdite (quelle giapponesi furono molto elevate in termini umani, anche in virtù della loro audace strategia offensiva) fu fiacca e difensivista, garantendo la piena iniziativa ai generali del Sol Levante, che il 2 gennaio 1905 si videro premiati con la conquista della stessa Port Arthur.
L’esercito giapponese ora poteva sferrare un attacco verso nord, e a marzo venne espugnata Mukden dopo una sanguinosissima battaglia che costò tra 50.000 perdite tra morti e feriti ai giapponesi e 130.000 tra morti, feriti e prigionieri ai russi. Il pessimo andamento della guerra convinse un incredulo governo zarista a compiere una mossa estrema.
Lo zar Nikolaj II, che non aveva mai brillato per polso e decisione, fu convinto ad inviare l’intera Flotta del Baltico, cinquanta navi da guerra che stazionavano nella base di Kronštadt, di fronte a San Pietroburgo, a cambiare le sorti della guerra con un’epica battaglia di linea navale.
Il problema era uno solo: dovevano attraversare mezzo mondo, circumnavigando Europa e Africa (Suez era off limits a causa dell’ostilità britannica), superare India e Indonesia e risalire fino alla Corea, in un viaggio estenuante di mesi e mesi che avrebbe portato al limite le navi e i marinai ben prima di qualsiasi scontro!
L’ammiraglio Rožestvenskij, capo supremo, decise di inserire nella flotta (per fare numero) anche le corazzate e gli incrociatori ormai vecchi e obsoleti, rendendo il viaggio di tutti più lento e, in ultima analisi, indebolendo il loro potenziale complessivo, tutto a vantaggio dei più riposati e concentrati nipponici, che avevano avuto mesi e mesi per prepararsi e addestrarsi nella calma delle loro acque territoriali in attesa dello scontro decisivo.
L’impresa, epica e pazzesca insieme, doveva essere compiuta in dieci mesi. La flotta russa carbonava in mare (grazie ad un accordo con una compagnia commerciale tedesca) e poteva entrare solo brevemente nei porti controllati dalla Francia (alleata della Russia, ma neutrale) e questo causò il progressivo deterioramento delle navi, in particolar modo di quelle più vecchie.
Inoltre, per non rovinare le canne dei cannoni che non sarebbero state sostituibili fino a Vladivostock, le esercitazioni di tiro furono notevolmente ridotte. Al contrario l’ammiraglio Tōgō, che aveva calcolato al millesimo il tempo che sarebbe occorso alla flotta nemica per arrivare a destinazione, studiò tutte le contromisure per impedire che le navi russe attraccassero a Vladivostock.
Alla fine, la stremata flotta russa fu intercettata sullo Stretto di Corea, di fronte all’isola di Tsushima, da cui la grande battaglia navale prese il nome. L’esito, alla fin fine, era quasi scontato: con navi più veloci e dotate di armi più moderne, guidate con straordinaria perizia dal comandante nipponico, i giapponesi risolsero tutto in poche ore. Alla sera del 27 maggio 1905, i cannoni nemici avevano annientato tutte le otto corazzate della flotta russa e ridotto il loro comandante in fin di vita.
I generali russi, nonostante lo smacco devastante, premevano per il proseguo delle ostilità, anche a costo di lasciare sguarnito lo scacchiere europeo. La loro idea non era del tutto sbagliata, perché in effetti il governo nipponico era a rischio bancarotta e il suo esercito, seppur sempre vittorioso, risultava sfinito per i due anni di guerra e le dure condizioni dell’inverno in Manciuria.
Il problema risiedeva in quei mali che appariranno ancora più decisivi appena dieci anni più tardi, durante la Grande Guerra: se i soldati russi erano duri, coriacei e molto combattivi, nel complesso il sistema di comando e la logistica facevano acqua da tutte le parti, penalizzando grandemente l’operatività sul campo. I migliori ufficiali erano morti combattendo ed erano rimasti i peggiori, che si imboscavano a bere e ad intrattenersi con le prostitute nei bordelli delle retrovie, lasciando i loro reparti in prima linea senza guida.
Pian piano, a causa di questa differenza di leadership (gli ufficiali giapponesi si sacrificavano tanto quanto il singolo soldato semplice, avevano un altissimo senso dell’onore e dello Stato e imponevano una rigida disciplina nei ranghi), il morale nipponico si alzò sempre più, mentre quello russo arrivò vicino all’ammutinamento generale.
Sempre a causa della corruzione e del malgoverno della logistica, l’enorme massa di soldati russi (alla fine il rapporto era di 3 a 1 contro i giapponesi) rischiò di diventare un tremendo boomerang per l’inedia e i focolai di scorbuto dovuti alla scarsa alimentazione.
Questo clima di sconfitta e abbandono si diffuse attraverso la stampa e la posta dal fronte, per quanto fortemente sottoposta a censura, fino a Mosca, dove nel 1905 scoppiò quella rivoluzione (anticipo di quella del 1917) che mise a dura prova la stabilità del governo.
I russi, alla fine, dovettero vergognosamente accettare la mediazione del presidente statunitense Theodore Roosevelt per giungere al Trattato di pace di Portsmouth. Il 5 settembre 1905 la Russia dovette cedere al Giappone la metà meridionale dell’isola di Sakhalin, che era stata sino ad allora sotto il dominio russo; dovette poi rinunciare al controllo della base navale di Port Arthur e della penisola circostante e ritirarsi dalla Manciuria, oltre che riconoscere la Corea come una zona di influenza giapponese.
Il Giappone, finalmente riconosciuto come potenza sul palcoscenico globale, si sarebbe annesso la Corea nel 1910, scatenando le proteste internazionali. Fu questa la prima vittoria nell’Era Moderna di una nazione asiatica su di una europea, gettando le basi per la crisi del sistema occidentale che portò alla dissoluzione dei grandi imperi coloniali e all’instaurarsi di nuove dinamiche geopolitiche.
Alberto Massaiu
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