I due scontri che si svolsero a poco più di dodici chilometri di distanza – ma che si svilupparono in due battaglie che non si fusero mai assieme – rappresentano il culmine del prestigio militare di Napoleone Bonaparte. Certo, l’imperatore dei francesi mise al tappeto russi, britannici, spagnoli, portoghesi e austriaci fino al disastro in Russia del 1812, ma la campagna del 1806 fu un capolavoro di strategia, organizzazione e di applicazione pratica che ha pochissimi (forse nessuno) uguali nella storia militare.
Per riassumerlo in numeri, in appena 33 giorni la Grande Armée vinse due battaglie decisive, uccise 20.000 nemici, fece 140.000 prigionieri, prese 800 cannoni, 250 tra bandiere e stendardi ed entrò in trionfo nella capitale avversaria, Berlino, in cui fece sfilare gli umiliati ufficiali prussiani sopravvissuti circondati dalle baionette francesi.
Questo risultato fu il frutto di diversi elementi:
1) Napoleone era ancora giovane, appena trentasettenne, nel pieno delle sue facoltà fisiche e mentali. Di più, era l’indiscusso comandante in capo oltre che il vertice politico dell’intero impero.
2) Il suo esercito, la Grande Armée, era il più moderno, motivato, addestrato e organizzato d’Europa. Di più, i comandanti erano tra i più audaci, abili e dinamici, come Louis Nicolas Davout dimostrò ampiamente ad Auerstädt.
3) I prussiani, invece, avevano una leadership divisa sia a livello politico che militare. I due partiti della pace – guidato dal sovrano, Friedrich Wilhelm III – e della guerra – guidato dalla sua energica consorte, Luise di Mecklenburg-Strelitz – avevano condotto per settimane un conflitto intestino di corte per decidere se il paese doveva scendere o meno in guerra contro la Francia.
Alla fine, si dice che il piatto della bilancia si spostò solo quando la regina decise di negare i diritti coniugali al marito se non si fosse deciso per seguire “il sentiero dell’onore”. Ovviamente una scelta strappata in tal modo all’incerto re di Prussia si riverberò anche nell’indecisione sui piani da adottare.
4) Mentre Napoleone cercò fin da subito la battaglia decisiva, puntando ad individuare e annientare il grosso delle forze nemiche per poi marciare su Berlino, gli alti ufficiali prussiani elaborarono almeno quattro piani diversi – alcuni anche molto stravaganti, come la “parata militare” proposta dal generale Massenbach – che spaziavano da versioni molto offensive ad altre che, più prudentemente, consigliavano di retrocedere verso est in modo da congiungersi con i 120.000 russi di Bennigsen.
Alla fine, nonostante fossero stati questi ultimi ad aver praticamente dichiarato guerra alla Francia, con un ultimatum inaccettabile consegnato il 26 settembre del 1806, vennero persi giorni cruciali in ordini e contro-ordini che misero in crisi la ormai farraginosa macchina di mobilitazione prussiana, dando il tempo a Napoleone di prendere lui l’iniziativa, concentrando 200.000 uomini in quello che passerà alla storia come il “battaglione quadrato”.
5) L’esercito prussiano viveva ancora nella gloriosa tradizione di Friedrich il Grande, riproducendo gli schemi che avevano portato alle vittorie della Guerra dei Sette Anni (puoi leggere due miei articoli QUI e QUI). Queste tattiche erano, però, state superate dalla rivoluzione militare portata aventi dalla Rivoluzione Francese prima e da Bonaparte poi, e mostrarono tutte le loro carenze sui campi di battaglia della Sassonia.
Questi fattori, uniti uno con l’altro, portarono ad una campagna perfetta che, in appena un mese, mise in ginocchio una delle più grandi potenze europee, trasformando la Francia nella padrona di mezzo continente.
Tutto era iniziato nel 1804, quando Napoleone aveva proclamato a Notre Dame la nascita dell’Impero Francese. L’ascesa di questo parvenu, lontano anni luce dalle auguste dinastie che da centinaia di anni governavano il continente, fu la goccia che fece traboccare il vaso. Una nuova coalizione, la Terza, venne formata da Gran Bretagna (la Perfida Albione), Austria, Russia, Napoli, Sicilia e Svezia. Un mastodontico colosso che poteva ammassare mezzo milione di effettivi, con cui si pensava di concludere l’esperienza rivoluzionaria di Parigi e l’avventurismo corso di Bonaparte.
I piani prevedevano una cacciata dei francesi dalla Germania e dall’Italia, per poi marciare sulla capitale.
Napoleone, però, che si stava preparando ad invadere le isole britanniche con 200.000 uomini stanziati a Boulogne-Sur-Mer, sorprese tutti i coalizzati con una marcia che – in appena due settimane – trasferì sette corpi d’armata ad Ulm, in cui colse un primo straordinario successo frutto della grande abilità di movimento e concentrazione del suo esercito ai danni del generale austriaco Mack.
Quella che era stata l’Armée d’Angleterre, ora rinominata Grande Armée, al prezzo di un’avanzata rapida e sole 2.000 perdite aveva annientato un’intera armata di Vienna, facendo oltre 50.000 prigionieri.
Un tale smacco raffreddò gli entusiasmi dei coalizzati, che dovettero perfino abbandonare Vienna, che venne occupata con un abile colpo di mano da Joachim Murat. Gli austro-russi si dovettero ritirare in Boemia, dove il 2 dicembre concessero a Napoleone di disegnare il suo capolavoro tattico di Austerlitz.
30.000 tra morti, feriti e prigionieri, 180 cannoni perduti e un’infinità di bandiere testimoniarono la fine della Terza Coalizione, con l’Austria che dovette sottostare alle dure condizioni di pace di Bonaparte.
La velocità con cui si era svolta la campagna e le sue conseguenze in ambito geopolitico fecero tristemente dichiarare al primo ministro William Pitt il Vecchio, mentre guardava una carta dell’Europa: “Arrotolate quella mappa, non servirà più per i prossimi dieci anni”.
Nonostante la vittoria schiacciante, l’imperatore dei francesi si trovava ancora in guerra sia con San Pietroburgo che con Londra, a cui si univano nazioni minori come Svezia e Portogallo. Rimaneva in bilico la Prussia, unica potenza che era rimasta a guardare negli ultimi anni, ma che vantava quello che veniva considerato tra i migliori eserciti al mondo, in ragione dei passati allori militari di Friedrich II cinquant’anni prima.
Nella campagna del 1805 Napoleone aveva temuto l’intervento dei prussiani, che avrebbero aggiunto altri 225.000 uomini alla bilancia della guerra. Dopo i successi in Germania meridionale, Austria e Boemia, però, quest’ultimo puntò ad ottenere il massimo vantaggio diplomatico dalle mutate condizioni politico-militari del continente, costringendo Berlino a siglare la convenzione di Schönbrunn il 15 dicembre, in cui si fece cedere i principati prussiani di Cleves, Ansbach e Neuchâtel in cambio dell’Hannover – conquistato dal generale Mortier nel 1803 – e di una formale alleanza contro la Gran Bretagna.
A questo punto, tra il luglio e l’agosto del 1806, diede un’altro schiaffo all’ordine dell’Ancien Régime europeo, sciogliendo l’ormai anacronistico e millenario Sacro Romano Impero della Nazione Germanica, per sostituirlo con la Confederazione del Reno, un’insieme di Stati tedeschi vassalli della Francia.
Allo stesso tempo installava il fratello Giuseppe come re di Napoli, e l’altro – Luigi – come sovrano dei Paesi Bassi. Il continente stava diventando un mosaico di nuove monarchie in cui i Bonaparte facevano la parte del leone. Ci fu anche il tempo per una puntata nei Balcani con l’occupazione di Ragusa, in Dalmazia, per tenere lontani i russi dall’Adriatico.
Fu in questo viavai di iniziative diplomatiche e militari che Napoleone, strafando, portò la Prussia alla guerra. Quest’ultima, infatti, aveva visto le azioni dei francesi in Germania come una crescente minaccia, ma il vaso fu colmo quando l’imperatore – nell’inutile tentativo di giungere alla pace con gli inglesi – propose loro di restituirgli l’Hannover (terra da cui proveniva la casata reale regnante).
Per quanto la proposta cadde nel vuoto, il solo fatto che fosse stata messa sul tavolo fu visto come un insulto gravissimo a Berlino, specialmente dalla focosa moglie del sovrano, Louise (quella dei diritti coniugali negati) e dal suo entourage, che spinsero l’irresoluto Friedrich Wilhelm alla guerra.
Fatto sta che, a parte la decisione di scendere in armi contro la Francia, ben poco venne pianificato per condurre il conflitto.
I più alti generali prussiani erano anziani aristocratici – come il duca di Brunswick, sessantanovenne, il principe Hohenlohe, sessante e il celebre von Blücher, ottantaduenne – spesso in conflitto tra loro che si sabotavano a vicenda i piani della campagna, inviando ordini e contro-ordini che mandarono in tilt la disposizione dei reparti in vista dell’inizio delle operazioni. Questa condotta schizofrenica lasciò basito Napoleone, che si aspettava di meglio dalle forze armate di uno dei suoi geni ispiratori, Friedrich il Grande. In una lettera scritta al suo capo di Stato Maggiore, Berthier, scrisse: “I movimenti dei prussiani continuano ad essere incomprensibili, hanno bisogno di una lezione […] Se le notizie continueranno ad indicare che hanno perso la ragione, io mi dirigerò verso Würzburg o Bamberg”.
Uniche eccezioni a questa sequenza di alti papaveri litigiosi erano il principe Friedrich Ludwig di Prussia – nipote trentatreenne del grande Friedrich – e il colonnello Gerhard Johann von Scharnhorst. Entrambi avevano doti di comando e di intuizione che sarebbero state molto utili durante la guerra. Purtroppo, il primo venne ucciso in combattimento nelle prime fasi della campagna presso Saalfeld, e il secondo era troppo basso in grado per imporre i suoi piani. La sua riscossa si sviluppò dopo Jena, quando divenne il capo della riforma dell’esercito annichilito da Napoleone.
Ad ogni modo, dopo aver preso l’iniziativa e invaso la Sassonia, l’imperatore si ritrovò a marciare in direzione di Berlino, puntando ad individuare il grosso delle forze nemiche per annientarle in una grande battaglia. Il 14 ottobre, appena sei giorni dopo l’inizio formale delle ostilità, Bonaparte aveva dimostrato il suo genio strategico concentrando in appena 28 ore ben 150.000 uomini nell’area designata per il colpo di maglio, prendendo in contropiede i comandi prussiani, che furono forzati ad entrambi i combattimenti di Jena e di Auerstädt.
Nella prima località, che come ho detto precedentemente si trova ad appena una dozzina di chilometri dalla seconda, il grosso delle forze francesi guidate da Napoleone in persona – circa 96.000 uomini e 120 cannoni – affrontò i soldati di Hohenlohe – circa 53.000 uomini e 120 cannoni.
Nella seconda, invece, il maresciallo Davout con un solo corpo d’armata – il III, di appena 26.000 uomini e 44 cannoni – il grosso delle forze prussiane, guidate dal re Friedrich Wilhelm III e dal duca di Brunswick, per un totale di 54.000 uomini e 230 cannoni.
Non mi interessa illustrare qua in dettaglio lo svolgersi degli scontri, che risulterebbe troppo lungo per questo blog. Quello che conta è che – a parte gli errori dell’irruento Ney, che quasi gli costarono la vita – la superiorità numerica, qualitativa e tattica dei francesi a Jena permisero a Napoleone di annientare metà delle forze nemiche (25.ooo tra morti, feriti e prigionieri) al prezzo di 5.000 perdite.
Il vero trionfo della giornata, però, fu meritatamente guadagnato da Davout. Senza l’appoggio del corpo di armata di Bernadotte – che verrà aspramente rimproverato da Napoleone in seguito – affrontò da solo un numero doppio di avversari per cinque ore e mezza, dalle 7 del mattino fino alle 12.30. Per le prime quattro la sua fu una lotta disperata contro le soverchianti forze avversarie, che per fortuna continuarono a mantenere poca coordinazione nei loro attacchi, permettendo al maresciallo di inviare le sue poche riserve nei punti dove gli scontri risultavano più critici.
Tra le 10 e le 11 sia il comandante effettivo dei prussiani, il duca di Brunswick, che il generale Schmettau furono feriti mortalmente. A quel punto si vide la fibra del sovrano tedesco, che perse il polso della battaglia, lasciando inattivi ben 14 battaglioni di fanteria, 5 squadroni di cavalleria e 3 batterie di truppe fresche mentre Davout, fiutato nell’aria che il nemico era prossimo a sbandarsi, ordinava di passare dalla difensiva all’attacco.
Le superbe truppe francesi, per quanto logorate dai disperati scontri della mattina, si disposero disciplinatamente in una temibile formazione a mezzaluna, avanzando su tutto il campo. Fu troppo per gli avversari, che increduli si videro venire incontro dei nemici in inferiorità numerica.
Il maresciallo aveva lanciato l’offensiva alle 12. Mezz’ora dopo i prussiani erano in completa rotta, con 13.000 tra morti, feriti e prigionieri, al prezzo di 7.500 perdite in campo francese.
Il collasso psicologico di quello che, fino al giorno prima, era considerato tra i più potenti apparati militari d’Europa, fu testimoniato dal numero di prigionieri fatti dalla cavalleria di Murat nei due giorni seguenti (ben 14.000!). Era la campana a morte per Berlino.
L’ingresso formale nella capitale nemica si tenne il 27 ottobre, e l’invitto III Corpo di Davout ebbe l’onore di entrare per primo in città, come attestato di stima per l’eccellente prova data ad Auerstädt. Il trionfo era completo, la nazione nemica prostrata, ma il sovrano e la sua giovane moglie si trasferirono in Prussia orientale, dove con i pochi superstiti si ricongiunsero ai russi di Benningsen per continuare la lotta.
Napoleone dovrà impegnarsi in un altro durissimo anno di campagne nel gelido nord, e solo nel 1807 potrà imporre la pace a tutti i suoi nemici sul continente, stabilendo quella supremazia che sarà rimarcata del tutto a Wagram due anni dopo. Nel 1810 l’intera Europa era un articolato sistema di Stati vassalli o alleati (nel caso di Prussia, Austria e Russia forzatamente) della Francia. Un Imperium Napoleonicum imponente, che aveva avuto pochi eguali nella storia del mondo, ma con i piedi d’argilla.
La disfatta in Russia del 1812, e la seguente campagna che si concluse a Lipsia nel 1813, pose la parola fine alla sua epopea. Waterloo, per quanto celeberrima, poco avrebbe cambiato nello scacchiere geopolitico anche in caso di vittoria su Wellington.
Alberto Massaiu
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