Quante volte vi è capitato di vedere un film/leggere un libro di spionaggio o di guerra? Il 95% delle volte i buoni sono americano o inglesi (soprattutto se siete fan di James Bond come me) e i cattivi sono russi, nordcoreani o musulmani di paesi considerati canaglia come Iran o Siria.
Le trame sono abbastanza scontate. Abbiamo uno o più eroi, in genere spacconi, capaci di battere il nemico di turno tirando fuori una battuta ad effetto al momento giusto. Il mondo viene salvato e spesso tornano a casa anche con una bella ragazza al fianco.
Questo, nella finzione cinematografica. Ben diverso è quello che sta avvenendo in Medio Oriente (i cui effetti stiamo assaporando in questi ultimi mesi anche da noi), dove un esodo di massa è il colpo di coda avvelenato della sopravvalutata “Primavera Araba”, che si è rivelata il come la classica apertura del Vaso di Pandora.
I regimi dittatoriali di quei paesi agivano in un certo qual modo da tappo (poco carino da dire, ma vero) a tutta una serie di correnti sotterranee che sono eruttate fuori come una nube piroclastica da un vulcano silente da secoli.
I risultati sono davanti agli occhi di tutti, inondando giornali, televisioni e social network, che fanno a gara per cavalcare l’ennesima tragedia umanitaria. I governi europei (che hanno una buona dose di responsabilità nell’aver fatto saltare quel tappo) navigano a vista, cambiando decisioni di giorno in giorno.
Basti pensare alla Germania, che quando decise di accogliere i rifugiati siriani proponendo un riparto tra i vari paesi (è stato poche settimane fa) divenne la paladina del bene, salvo poi chiudere le frontiere a tutti e sospendere Shengen perché si è accorta che neanche lei poteva gestire l’Esodo che si stava riversando a Monaco di Baviera.
Ad ogni modo oggi non voglio parlare di immigrati, tema fin troppo arato in questi tempi. Vorrei analizzare assieme a voi il più grande bacino da cui provengono questi poveracci (4 milioni, con un ritmo di decine di migliaia alla settimana): la Siria con la sua guerra civile.
Partiamo con un po’ di informazioni di base. Terra antichissima con un passato glorioso e fiorente alle spalle (Damasco è la più antica capitale del mondo, con 11.000 anni di esistenza), questa regione è diventata uno Stato con la dissoluzione dell’Impero Ottomano, nel 1920.
Fino alla conclusione della II Guerra Mondiale rimase un protettorato francese, cosa che permise la sua relativa modernizzazione e laicizzazione. Dal 1948 diventa uno dei nemici più accesi dello Stato d’Israele, contro cui combatterà ben tre grandi conflitti tra il ’48 e il 73’.
Per questa ragione la Siria, governata dal 1963 dal partito Baʿth (lo stesso dell’iracheno Saddām Hussein) e dal 1970 dalla famiglia Asad con Ḥāfiẓ al-Asad e il figlio Baššār al-Asad (dopo la morte di Hāfiz nel 2000), si è schierata negli anni della guerra fredda con il blocco sovietico, diventando di conseguenza uno degli Stati canaglia (traduco: nemici degli Usa) del mondo, visto nel fumo negli occhi dall’Occidente (tranne che dalla Francia, che memore del suo passato coloniale e dei suoi interessi, ha mantenuto ottimi rapporti con Asad fino al 2011).
Allo scoppio della al-Rabīʿ al-ʿArabī – Primavera Araba – tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011, il leader siriano si era detto fiducioso sull’impermeabilità del suo paese al vento di protesta sollevatosi in Tunisia ed Egitto. Le sue rosee aspettative si scontrarono con la realtà fin dal 15 marzo, con le prime proteste pacifiche. In seguito ad un atteggiamento schizofrenico (giri di vite repressive e aperture, e viceversa) la situazione degenererò tra il giugno e l’ottobre del 2011, quando nacque l’ESL o Esercito Siriano Libero.
Questa forza era principalmente sunnita (ricordo che la Siria ha lo stesso problema dell’Iraq, dove una maggioranza sunnita è governata da minoranze religiose, e nello specifico Asad è sciita) ma, perlomeno in principio, il fronte antigovernativo era d’ispirazione moderata.
Con l’intensificarsi del conflitto le posizioni si radicalizzarono e dal gennaio-marzo del 2013 vi fu l’ascesa del fondamentalismo islamico, con i primi sconfinamenti dell’Isis, che dal nordovest dell’Iraq al collasso iniziarono ad approfittare del vuoto di potere dovuto alla guerra civile siriana.
Come ho avuto già modo di dire nel mio articolo sull’Isis, quest’ultimo cresce per l’immenso vuoto strategico-politico dovuto all’esito disastroso della Seconda Guerra del Golfo, con gli americani che sono scappati con la coda tra le gambe da un ginepraio che gli è costato 4.500 morti e 30.000 feriti, senza contare gli alleati e gli iracheni “buoni” delle Forze di Sicurezza.
Le forze governative di Asad, che tengono ancora la capitale Damasco, Homs e le città portuali di Latakia e Tartus, sono circondate da nemici a est (Isis) e a nord (curdi e ribelli dell’ESL, mentre sono supportati ormai da un paio d’anni dalle milizie libanesi di Hezbollah, dell’OLP e da truppe iraniane scelte come le Guardie della Rivoluzione Islamica.
Grazie all’intervento di questi rinforzi sono riuscite a gestire la situazione e a recuperare numerose posizioni, ma il paese risulta più diviso che mai, con aree controllate nettamente da una fazione, aree diventate terra di nessuno e aree di pesante conflitto, percorse da eserciti e bande di guerriglieri che hanno portato a quasi 200.000 morti, 4 milioni di espatriati e quasi 8 milioni di sfollati. Una vera catastrofe umanitaria e demografica per un paese che contava 18 milioni di abitanti nei primi anni del 2000.
L’instabilità dei uno Stato così importante per gli equilibri del Medio Oriente ha fatto recentemente riaffacciare nella scena il vecchio alleato russo. Vladimir Putin, che ha sempre sostenuto il governo di Asad (con l’unico tentennamento ufficiale qualche anno fa, quando nell’ONU si parlava di utilizzo di armi chimiche contro i ribelli) con denaro e aiuti logistici e militari, ha deciso di far intervenire le prime truppe regolari.
Per quanto il ministro degli esteri Sergej Lavrov abbia respinto le accuse statunitensi secondo cui Mosca starebbe dispiegando uomini e mezzi vicino alla città portuale di Latakia, controbattendo che la Russia stia solo rifornendo Asad con mezzi e consulenti militari, sempre più fonti – come l’Agenzia Reuters – confermano l’arrivo di truppe scelte e mezzi pesanti, oltre che aviazione ed elicotteri da combattimento di ultima generazione.
Ancora più importante è il fatto che i russi stiano facendo lavori di ampliamento e potenziamento della loro storica base di Tartus, oltre che aprire ulteriori basi a Latakia e nell’interno. Dubito che tutto questo venga fatto per permettere il solo invio di un maggior numero di mezzi ad Asad o ad alloggiare meglio le sue truppe, ma è piuttosto strategicamente volto all’accoglienza di contingenti di truppe russe, che andranno a rinforzare le ormai esauste forze governative siriane.
I russi hanno più e più volte affermato che “La minaccia rappresentata dal gruppo Stato Islamico (ISIS) è evidente e l’unica forza in grado di resisterle è l’esercito siriano” ed è probabile che preferiscano intervenire direttamente prima che l’area venga ulteriormente destabilizzata, magari portando ad una recrudescenza dei movimenti islamisti dei Ceceni nel Caucaso.
A questa considerazione si deve aggiungere che la politica di Putin, sempre più interventista e decisionista rispetto all’inconsistente e irresoluta politica Obama, che ha incautamente minacciato interventi su interventi per poi ritirarsi con la coda tra le zampe al minimo segno di resistenza avversaria (in Siria contro Asad, in Iraq contro l’Isis, in Crimea contro la Russia), sta gettando tutte le premesse per un revanscismo russo nella geopolitica internazionale.
Se ci pensiamo, la Russia ha un potenziale militare di primo piano, non intaccato da quindici anni di conflitti ininterrotti in Medio Oriente. In più ha sempre avuto un ruolo (tranne che in Afghanistan) di alleato di molti regimi dell’area (come i palestinesi, gli iraniani, gli egiziani e i siriani) e se gioca bene le sue carte, una volta debellato il problema Isis, potrebbe stendere la sua influenza in un’area strategica cruciale per gas naturale e petrolio.
Ricordo anche che Armenia, Georgia, Cipro, Grecia, Bulgaria e Serbia sono tutti paesi a maggioranza ortodossa e la Russia, complice il pessimo andamento dei rapporti di solidarietà in Europa in seguito alla crisi economica e all’emergenza immigrazione, potrebbe sfruttare il suo ruolo di nuovo antemurale dell’Occidente come grimaldello per scardinare alcune tessere nel mosaico NATO, esattamente come ha sventato (militarmente) l’entrata di Georgia (2008) e Ucraina (2014) in una qualche forma di alleanza euro-americana.
Insomma quello che è attualmente un’area fortemente destabilizzata e destabilizzante (per l’Europa sempre più incapace a gestire la situazione di milioni di profughi che arrivano da Medio Oriente e Africa) potrebbe diventare l’arena per l’ennesimo capitolo del “Grande Gioco” iniziato dalla Russia Zarista e dall’Impero Britannico un secolo e mezzo fa e che ancora permane, nonostante numerosi attori si siano avvicendati sul suo imponente palcoscenico.
Alberto Massaiu
2 Comments
Isis avrebbe poi un valido alleato nella Turchia, a giudicare dal flusso di rifornimenti che i turchi fingono di non vedere. In cambio ottengono petrolio a basso costo. Vediamo fin quando riescono a tenere il giochino.
Chissà, la Turchia sta giocando in maniera molto particolare, sfruttando l’Isis per indebolire i curdi, che si vedono stritolati sempre più tra i turchi e i fondamentalisti islamici. Bisogna vedere cosa succederà alla fine della battaglia per Aleppo, dove i governativi di Asad stanno giocando tutte le loro carte. A quel punto, a seconda del bilanciamento delle forze alla conclusione di questo scontro cruciale, potremmo dover rivedere molte nostre valutazioni, in quanto il gioco delle alleanze potrebbe di nuovo cambiare