L’Oriente: accentratore, con milioni di uomini asserviti al loro signore che è reincarnazione degli dei. Ricco, opulento, multiculturale, multirazziale, tollerante, mistico e decadente; l’Occidente: decentrato, con dozzine e dozzine di città sempre in lotta tra loro e tenacemente attaccate alla loro indipendenza, che vedevano nella popolazione al di là della loro montagna o del prospiciente fiume un cittadino straniero e un potenziale nemico (anche se culturalmente affine), razzista verso tutti quelli che non parlavano greco (barbaroi, balbuzienti per l’appunto), con una cultura contadina e in genere abbastanza rozza di usi e costumi (questo parametro variava a seconda della polis in analisi, infatti Atene era molto diversa da Sparta, Tebe e viceversa) ma con molte potenzialità non sfruttate, una vitalità e un fortissimo spirito civico che poneva in gioco grosse premesse.
Come si giunse a questo confronto? Partiamo dai persiani, gli Stati Uniti dell’epoca: con il fondatore Ciro avevano combattuto una guerra d’indipendenza contro gli ex dominatori medi e gli avevano infine sconfitti e assimilati. Da questa forte base si erano espansi con lui e i suoi successori in tutte le direzioni, sia in Asia centrale (Iran, Afghanistan, ex repubbliche russe del Caucaso) fino all’India, sia ad ovest, inglobando tutta la Mesopotamia, la Palestina, il Libano, l’Egitto e l’Asia Minore, sconfiggendo il re della Lidia, Creso.
La Lidia all’epoca della sua caduta era molto potente ed esercitava un protettorato benevolo sulle città ellene della Ionia, cosa che andava bene ad entrambi perché favoriva i commerci.
Ma tutto cambiò con i persiani, questi infatti insediarono un Satrapo imperiale (un governatore) nella regione, che si stabilì a Sardi, e da li iniziarono ad ingerirsi nelle questioni delle ricche e potenti città greche della regione e richiedendo contributi, tasse e navi per la flotta imperiale.
Come abbiamo già accennato, i greci erano gelosissimi della loro indipendenza e oltretutto gli si scaldava presto il sangue, cosa che successe puntualmente il 499 a.C. ad Alicarnasso.
Sfruttando l’effetto sorpresa poterono attaccare Sardi, la sede del governatore imperiale, e la diedero alle fiamme. A questo punto, una volta esauritasi il moto di follia che aveva animato l’azione, ritornò la ragionevolezza e con lei la consapevolezza di essersi appena condannati a morte. Immediatamente chiesero aiuto alle città del continente, ma solo Atene ed Eretria risposero (peraltro inviando un numero esiguo di navi da guerra).
Il sovrano persiano Dario soppresse con facilità la rivolta ionica, mobilitando una piccola parte delle ingenti risorse di un impero che andava dall’Egeo all’Indo, poi giurò di vendicarsi di Atene ed Eretria e magari espandersi anche nella piccola penisola ellenica.
Preparò tutto con cura e nel 490 inviò una flotta di seicento navi e circa quarantamila uomini tra fanti e cavalieri per distruggere le piccole città e creare una testa di ponte in Ellade, per future campagne.
Eretria venne assediata, presa e rasa al suolo senza che gli ateniesi potessero far nulla. Terrorizzati chiesero aiuto a tutti i vicini, ma nessuno tranne l’alleata Platea le venne in soccorso. Perfino Sparta, la maggior potenza militare greca, trovò una scusa per il suo mancato intervento in una festività religiosa che non permetteva agli eserciti spartani di muovere guerra a chicchessia.
Capita la situazione gli ateniesi si affidarono al loro migliore comandante, Milziade, che conosceva bene i persiani perché aveva servito nei loro eserciti, affinché elaborasse una strategia efficace.
L’esercito persiano si era diviso per assediare Eretria e attaccare Atene, perciò vicino alla città c’erano solo venti-venticinquemila soldati. Milziade decide di muovere contro di loro con i suoi opliti (diecimila ateniesi e mille platesi), per annientare una parte delle forze persiane prima che riottenessero la piena consistenza numerica.
Ma analizziamo le forze che si confrontarono quel giorno.
I persiani erano reduci da due generazioni di continue conquiste, avevano un esercito che annoverava soldati di tante etnie differenti e con specializzazioni diverse, ma il nucleo migliore si concentrava sugli arcieri e i cavalieri medi e persiani.
La tattica da loro utilizzata era quella in voga in oriente, ovvero scariche di frecce e uso della cavalleria per travolgere fanti e cavalieri avversari, inseguendoli dopo la vittoria trasformandola così in uno scontro decisivo. In genere il fante medio persiano non era adatto ad un corpo a corpo come quello che possiamo intendere noi, o perlomeno non era finalizzato a tale scopo.
L’esercito greco era invece totalmente differente. Composto solo dai cittadini più abbienti della città, ovvero i soli che potevano permettersi l’acquisto di un armatura completa: corazza, scudo, elmo, schinieri, lancia e spada. La battaglia era finalizzata proprio alla ricerca del contatto fisico con l’avversario, con i due schieramenti pesantemente armati e disposti in ordine chiuso che si caricavano a vicenda, possibilmente in una pianura senza ostacoli dove l’ordine di battaglia non tendesse a scompaginarsi. Questa primitiva “falange” non era molto propensa a grandi manovre tattiche. I greci preferivano risolvere tutte le beghe attraverso un virile scontro frontale, molto duro fisicamente ma abbastanza rapido nella risoluzione. Doveva sembrare più che altro una grossa rissa e i morti erano dovuti più spesso al soffocamento per la pressione tra gli uomini piuttosto che per un ferale colpo di spada o lancia. Ad un certo punto una di queste masse di armati cedeva, vuoi perché più stanca dell’altra, vuoi perché cadeva il comandante oppure perché (più raro) si era aperta una falla nello schieramento, e si dava alla fuga.
Questo era il momento dove si verificava il maggior numero di caduti, ovvero quando i soldati sconfitti volgevano le spalle agli opliti nemici. La morte con una ferita alla schiena era un simbolo di codardia indicibile. Era visto negativamente anche l’uso dei vili arcieri, che colpivano da lontano, e l’adozione di trucchi, stratagemmi e strategie che potessero portare vantaggi “scorretti” nello scontro diretto delle falangi oplitiche.
Come si può notare da questa sommaria distinzione i due eserciti a confronto erano quanto ci potesse essere di diverso nell’arte militare. Ma a prevalere furono i più saldi greci piuttosto che le polifunzionali schiere persiane.
Milziade sapeva il fatto suo e organizzò l’assalto affinché i suoi uomini si offrissero il meno possibile al tiro nemico ed entrassero subito in mischia. Inoltre aspettò il momento dove la maggior parte della cavalleria persiana era uscita in cerca di rifornimenti per assaltare l’esercito nemico.
Alla fine nella piana di Maratona i greci erano inferiori solo di due a uno, ma con una forza d’urto dieci volte superiore rispetto allo schieramento persiano. Lo strategos ateniese fece marciare i suoi uomini in formazione serrata, rinforzando le ali con un maggior numero di uomini e diminuendo le file al centro, per effettuare una manovra a tenaglia e superare anche il deficit dell’inferiorità numerica delle sue forze.
A duecento metri dai nemici, distanza utile per il tiro persiano, gli opliti si lanciarono di corsa, per subire il minor numero di raffiche di frecce possibili, poi entrarono in contatto con i persiani, difesi da scudi di vimini, corte lance, armature di tessuto e pugnali.
Il lettore può immaginarsi come questi rudi guerrieri, abituati a scontri terribili con altrettanto nerboruti avversari, tutti coperti di decine di chili di bronzo, si siano trovati al cospetto dei fanti leggeri persiani.
Diciamo che imperversarono come un rullo compressore, disintegrando gli scudi di legno e travolgendo tutto quello che si trovarono di fronte. Le lance persiane non intaccavano minimamente le corazze di bronzo e solo nel centro, dove erano molto più numerosi, i persiani riuscirono a tenere il terreno e a respingere per un poco gli ateniesi. Ma nel frattempo le ali erano crollate e presto anche questi si diedero alla fuga, inseguiti da diecimila opliti ebbri di furia omicida e di sollievo. Era questo esercito di conigli il più temuto del mondo? Il risultato dello scontro è sia storia (per l’occidente), sia leggenda (per i greci), ma di sicuro traccia uno spartiacque fondamentale, insieme al risultato del futuro conflitto con i persiani del 480-479. I dati nudi e crudi attestano oltre seimila caduti tra gli invasori e circa duecento elleni, ma il risultato a lungo termine è molto più importante.
I persiani organizzeranno una nuova grande spedizione dieci anni dopo, ma verranno sconfitti in una duplice battaglia (Salamina nel 480 e Platea nel 479) sia per mare, sia per terra.
Dalle ceneri dell’orgoglio persiano nascerà quello greco, che da allora influenzerà per sempre sia il mondo orientale, sia quello occidentale.
Come abbiamo notato gli elleni avevano tutte le possibilità per prevalere contro i nemici esterni, ma avevano una malattia endemica: una volta sconfitti questi, ricominciavano le loro interminabili guerre e faide.
Era però iniziato un processo irreversibile, infatti Atene, città che più si era avvantaggiata dalle due guerre, era intenzionata a dominare tutte le altre polis, e per ottenere tale risultato poteva schierare centinaia di galee da guerra, che erano risultate decisive a Salamina e ora venivano rivolte contro i loro connazionali.
Dall’altro lato si trovarono gli spartani e i loro alleati, che potevano contare sul più potente esercito di terra della Grecia, risultato decisivo a Platea, che ora rivolsero contro le Lunghe Mura di Atene e verso i suoi possedimenti sparsi per il continente e le isole.
In questo conflitto, che verrà fatto passare alla storia da Tucidide come Guerra del Peloponneso, i persiani stettero a guardare, aiutando la parte più debole (in genere gli spartani, perlomeno in denaro), affinché prolungasse la guerra e portasse ad un esaurimento di energie di questo popolo tanto fastidioso e pericoloso per l’Impero.
Dopo trent’anni sarà Atene, l’unica polis che aveva qualche possibilità di creare un Ellade unita sotto il suo governo, a venire sconfitta da una coalizione di spartani, tebani ed ex membri della lega ateniese, tutti finanziati da ingenti quantità di oro persiano.
L’Armageddon si verificherà ad Egospotami, una baia dell’Asia Minore dove gli equipaggi delle ultime trecento triremi ateniesi si erano appartati per il rancio, lasciano alla fonda le navi. L’ammiraglio spartano Lisandro, accortosi della cosa, scagliò tutte le sue galee all’assalto, sopraffacendo in breve tempo i pochi marinai rimasti a guardia delle imbarcazioni, che vennero poi catturate o affondate. Era la fine.
Nel 404, dopo un anno di assedio sia da terra sia dal mare la grande città dovette capitolare, ponendo così fine ad un sogno. Il sogno di una Grecia unita e potente, capace di influenzare politicamente e militarmente tutta l’area dell’Egeo e forse del Mediterraneo.
A noi, al di là della vicenda storica, ci interessa illustrare cosa di nuovo portò questa guerra e che marcherà la divisione tra il periodo classico e quello che sarà poi chiamato Ellenismo.
Analizziamo per prima cosa la situazione militare dei contendenti. Sappiamo che gli spartani possedevano il miglior esercito dell’Ellade, anzi, correggiamoci, possedevano la più potente falange oplitica. Gli ateniesi ne erano perfettamente consci, soprattutto dopo le batoste che avevano subito tutte le volte che avevano avuto l’insana idea di affrontare in campo aperto spartani o tebani.
Partendo da questo principio si elaborò un nuovo principio militare, che denota la maggior larghezza di vedute di questo popolo di mercanti rispetto ai loro più conservatori avversari.
Come agiva la falange? Essenzialmente come un compatto muro umano. Questo rimaneva infatti impenetrabile, annientando un nemico meno disciplinato o meno corazzato. Questo schieramento aveva come punto debole la minor manovrabilità e la mobilità dei battaglioni. Era quindi essenziale che la falange fosse adeguatamente supportata in modo da non essere colta di sorpresa ai fianchi o alle spalle, che non affrontasse l’avversario in un terreno ripido o in un bosco e che non venisse coinvolta in schermaglie o battaglie per logoramento. Come abbiamo già detto il sistema di combattimento estremamente conservatore dei greci ne aveva permesso un uso costante fin dal medioevo ellenico e fino ad allora si era dimostrata immensamente superiore alle fanterie persiane.
Ma cosa succedeva se altri elleni avessero schierato nuove truppe leggere a supporto delle loro falangi? Professionalità come arcieri, giavellottisti o cavalieri? Gli ateniesi già durante la guerra del Peloponneso avevano iniziato ad equipaggiare unità di fanti leggeri, detti peltasti (per via del piccolo scudo detto pelta che utilizzavano in battaglia), che utilizzavano in operazioni anfibie nelle varie isole egee e nella Laconia, la sacra terra spartana. Nel 425 avevano perfino sconfitto e catturato un contingente di guerrieri spartani che presidiavano l’isola di Sfacteria.
I peltasti erano armati di giavellotti e forse solo di coltelli, raramente utilizzavano spade e mai armature, se non tuniche di lino rinforzato. I loro attacchi come schermagliatori erano l’incubo di ogni falange. Si avvicinavano, scagliavano le loro armi decimando i nemici e aprendo varchi nello schieramento e poi si ritiravano, senza mai offrire una possibilità di combattimento ravvicinato per gli opliti.
La sconfitta ateniese portò ad un perfezionamento della tattica in vista di una possibile rivincita.
Sarà il generale ateniese Ificrate ad utilizzare questo strumento con grande successo. Reclutò i migliori peltasti dell’Egeo, che venivano dalla Tracia, li inquadrò nelle armate ateniesi e grazie ad essi riuscì in maniera quasi indolore a infliggere una nuova sconfitta agli spartani che dopo il 404 dominavano l’Ellade con il pugno di ferro.
Ificrate iniziò anche a riorganizzare gli stessi opliti, in modo di renderli meno vulnerabili a questi colpi e più flessibili dal punto di vista tattico sul campo di battaglia. Innanzitutto portò le picche ad oltre tre metri, aumentandone il raggio d’azione. Successivamente dotò gli opliti di scudi più piccoli e leggeri ed elmi di tipo trace, che davano maggiore visibilità rispetto ai pesanti di foggia corinzia.
Infine vennero in parte riorganizzati i ranghi per poter agevolmente mantenere una posizione difensiva anche dove era più difficile compattare la falange. Da questo modello di partenza si aggiunsero successivamente altre innovazioni come l’uso dello scudo ovale detto thureos, più maneggevole del classico aspis e che comunque offriva una buona protezione al corpo.
Gli opliti di Ificrate ottennero successi contro tutti i nemici di Atene, ma non vennero adottati dalla maggior parte delle poleis greche, che come abbiamo detto erano fortemente refrattarie alle riforme e preferivano i vecchi opliti della tradizione.
Ma il salto di qualità tattico lo fece il comandante tebano Epaminonda. Infatti il metodo di combattimento di Ificrate era troppo “moderno” e “rivoluzionario” per gli elleni, dato che richiedeva l’utilizzo di unità aggiuntive e specializzate rispetto al classico oplita e inoltre prevedeva un concetto di scontro molto meno fisico e più ragionato, il che era troppo lontano dalla visione eroica del classico corpo a corpo del guerriero greco.
Epaminonda, che aveva a sua disposizione le migliori forze oplitiche ellene dopo quelle spartane, fece di tutto per potenziarle, trasformandole e rendendole più efficaci del normale lanciere pesante, ma mantenendo saldo l’ideale della battaglia di linea con lo scontro di falangi.
I suoi opliti dal modello di Ificrate presero le lance più lunghe e le corazze più leggere (linothorax, ovvero fatta di lino pressato) e optando per uno schieramento obliquo, rispetto al classico posizionamento in linea che permetteva a tutti i soldati di entrare subito in mischia.
Il passaggio allo schieramento obliquo è fondamentale dal punto di vista tattico, perché permette ad eserciti più piccoli di concentrare in un solo punto di contatto (ad esempio un fianco nemico) un maggior numero di truppe, e se queste sono anche di qualità superiore, di volgere in fuga quella parte dell’armata avversaria prima che possa far pesare la sua superiorità numerica.
Ma spieghiamoci meglio con un esempio pratico: la battaglia di Leuttra.
Questo scontro avvenne nel 371 a.C. tra le due città che all’epoca, ovvero dopo la disfatta ateniese, si contendevano il predominio sulla Grecia: Sparta e Tebe.
Come tutti sanno, gli spartani erano i guerrieri per antonomasia, sempre invitti nei combattimenti in campo aperto. In quel giorno di luglio nella piana di Leuttra, vicino a Tebe, vi erano 11.000 spartani contro 6.500 tebani. La differenza tra i contingenti di opliti era quasi il doppio, visto che almeno 1.500 dei tebani erano cavalieri (1.000 per gli spartani). In termini di combattimento oplitico era un suicidio accettare un combattimento in tale situazione, infatti era indubbio che lo schieramento spartano avrebbe circondato le ali tebane e poi avrebbe volto tutto il loro esercito in fuga. Inoltre tutti sapevano del valore degli spartiati, i nobili spartani, che componevano il fianco destro dell’armata e che avrebbero travolto tutto quello che avrebbero trovato sul loro cammino.
Epaminonda puntò proprio a questa sicurezza, infatti schierò la sua falange obliquamente, con il fianco sinistro più avanzato (che avrebbe affrontato il contingente d’élite spartano) e rinforzato, aumentando le fila e piazzando al centro il miglior reparto tebano: i trecento uomini dello hieròs lóchos, ovvero il Battaglione Sacro.
L’idea era quella di sfruttare la superiorità numerica locale per bloccare e mettere in fuga la parte più potente e significativa dell’armata spartana, per poi affrontare le sopravvenienti forze dello schieramento nemico.
Tutti gli altri contingenti tebani vennero disposti obliquamente, a scacchiera, come forza di contenimento fino a quando la potenza offensiva del fianco sinistro non avrebbe messo in rotta il cuore dell’esercito avversario.
Il piano funzionò alla perfezione. Fu proprio il fianco destro spartano, quello che doveva iniziare la carneficina, a venire sconfitto e volto alla fuga, con centinaia di spartiati caduti (compreso il re Cleombroto), mentre i tentativi di accerchiamento vennero vanificati dal fianco destro tebano troppo distante dal cuore dello scontro, grazie al suo posizionamento obliquo.
In più la cavalleria tebana, una volta messa in rotta la forza a cavallo spartana, aveva circondato i nemici portando aiuti alla fanteria. Gli spartani dovettero così ritirarsi con oltre duemila caduti contro i pochi tebani.
Il prestigio spartano era stato infranto. I giusti accorgimenti tattici si erano dimostrati capaci di superare anche la preparazione del singolo guerriero, cosa per cui erano famosissimi gli spartiati con la spietata agogè (l’addestramento militare iniziato a sette anni e che durava tutta la vita).
Nel 362 furono i tebani ad invadere il Peloponneso e avrebbero conquistato Sparta (cosa possibile visto che non aveva mura), se nella battaglia di Mantinea il comandante Epaminonda non fosse rimasto sul campo dopo aver regalato un nuovo trionfo alla sua città.
La sua morte interruppe il sogno egemonico di Tebe e aprì un periodo di interregno in Ellade, dove nessuna città poteva prevalere. Tutto era pronto per l’avvento di Filippo e Alessandro, i due sovrani macedoni.
Filippo secondo me è stato molto più geniale di suo figlio Alessandro. Infatti questi conquistò certamente tutto il mondo allora conosciuto, ma aveva ricevuto in eredità tutti gli strumenti per farlo dal padre. Prima di Filippo la Macedonia era poco più di un insieme di tribù di pastori che solo occasionalmente rispondevano al re, aveva dei nobili guerrieri ma questi erano indisciplinati e al massimo poteva schierare una rozza imitazione di falange oplitica di vecchio modello e qualche truppa di cavalieri.
Ma Filippo voleva di più. Venne mandato a studiare a Tebe al momento d’oro della città, ovvero quando Epaminonda elaborava i principi militari che resero irresistibile l’esercito tebano.
Quando tornò in patria era imbevuto di conoscenze greche e pieno di innovazioni per modernizzare il suo stato. Aveva un solo vero vantaggio dalla sua: l’assoluta arretratezza del suo dominio in tutti i campi rendeva il suo popolo più malleabile e recettivo alle innovazioni, dato che non possedeva una vera e propria tradizione alle sue spalle.
I duri montanari e pastori che componevano le sue fanterie vennero riorganizzati in una nuova formazione detta Falange. Questa era un ulteriore passo avanti rispetto a quella classica oplitica e a quelle “riformate” di Ificrate e di Epaminonda.
Rispetto a queste ultime risultava infatti più leggera, ovvero con meno armatura (fatta solo di lino pressato), elmi aperti per dare una migliore visuale e scudi molto piccoli, e allo stesso tempo più compatta, infatti le file erano molte di più, i soldati si disponevano in ordine chiuso più serrato ed erano molto più disciplinati.
Il vero simbolo della Falange macedone era però la sarissa, una picca lunga cinque-sei metri ma che in alcune varianti poteva raggiungerne anche i nove. In marcia e durante l’attacco le file erano distanti un metro l’una dall’altra, che veniva ridotta a mezzo metro nelle fasi difensive. Quando i falangiti combattevano, le file direttamente dietro quella in prima linea potevano abbassare le loro lance creando una foresta di picche impenetrabile, ancora più letale di quella oplitica, mentre gli ordini inferiori mantenevano le sarisse alzate (potendo anche oscurare eventuali movimenti di truppe alle loro spalle).
La sarissa era molto lunga e per questo necessitava di essere impugnata con entrambe le mani, il che però impediva di portare uno scudo troppo grande. Ogni soldato, come abbiamo già detto, venne perciò dotato di un piccolo scudo (pelta) legato all’avambraccio, questo copriva parte del suo corpo e metà del corpo del compagno alla sua destra. Ogni soldato faceva forte affidamento sul compagno per proteggersi e l’ordine compatto diventava ancora più imprescindibile.
Un così grande concentramento di punte d’acciaio era formidabile sia dal punto di vista offensivo (con un’eccezionale potenza d’urto) sia da quello difensivo, visto che creava un vero e proprio istrice mortale che nessun uomo o cavallo avrebbe potuto superare indenne.
Un ordine così serrato creava però due ordini di problemi, che abbiamo già evidenziato negli opliti e che si presenta in scala maggiore nella falange: in primo luogo l’estrema difficoltà di movimento causava un fortissimo rischio di collasso dell’intera formazione in caso di attacco ai fianchi o alle spalle. Inoltre, come tutte le formazioni che richiedono un perfetta formazione per operare, un lungimirante comandante avrebbe dovuto sempre cercare come terreni di scontro luoghi con pochi o nessun ostacolo naturale e non accidentati, cosa che avrebbe fatto perdere la coesione dello schieramento provocando una grossa perdita di efficacia della stessa.
L’altro problema, già comune nelle armate di opliti, era il fianco destro vulnerabile: l’utilizzo dello scudo per coprire il più possibile il torso del soldato alla propria sinistra provocava uno “spostamento” lento e inesorabile della falange verso sinistra, esponendo molto il fianco destro. Inutile rimarcare il problema e i rischi connessi al fianco esposto in un’unità come la falange.
Solitamente generali come Filippo, Alessandro Magno e gli immediati successori, risolsero il problema ponendo delle truppe scelte d’élite, dette hypaspistai , direttamente ai fianchi dell’immenso corpo principale falangitico (i pezhetaìroi, che all’apogeo comprendeva 16.384 uomini). Questi combattevano secondo un ordine oplitico oppure brandendo spade per il corpo a corpo, ovviando quindi ad entrambe le debolezze.
Ulteriore punto di evoluzione della riforma militare macedone fu l’introduzione e l’uso di elaborate tattiche sul campo di battaglia, dovute all’utilizzo di molti contingenti specializzati che fornivano ausilio alla possente falange centrale: abbiamo citato gli hypaspistai, ma c’erano anche arcieri e altri fanti leggeri armati di giavellotti o fionde, che davano nuove possibilità di affrontare i nemici in maniera indiretta o per operazioni che i pesanti opliti o i disciplinati falangiti non avrebbero mai potuto fare.
Inoltre, cosa ancora più fondamentale per le battaglie dei due sovrani macedoni e dei primi diádochoi (i successori di Alessandro), le loro armate potevano contare della formidabile cavalleria pesante di cui questo popolo era rinomato. La crema di questa forza erano gli hetâiroi, ovvero i compagni del re, composta dai nobili macedoni e addestrata alla carica con lunghe lance.
Filippo e poi suo figlio Alessandro combinarono tutte queste “armi” in un mix formidabile e irresistibile per tutti gli altri eserciti del tempo. Inoltre rividero i ruoli della falange, che non era più elemento principe delle battaglie come lo erano gli opliti, ma solo un mezzo di complemento della vittoria. Infatti la tattica preferita dai due sovrani era quella cosiddetta ad “Incudine e Martello”, dove l’incudine erano i falangiti, che opponevano il loro muro di lance verso il nemico, il martello era la cavalleria pesante, che una volta sconfitta la cavalleria nemica si volgeva verso la fanteria avversaria, mandandola letteralmente a cozzare contro i falangiti e massacrandola.
I poveri greci, tradizionalisti e attaccati ai vecchi usi, furono troppo cechi e orgogliosi per pensare anche solo di rivedere i loro metodi di combattimento, e nel 338 una coalizione tebano-ateniese, ultimo baluardo di libertà per le poleis greche, venne sonoramente battuta a Cheronea dal moderno esercito macedone.
Le forze in campo erano più o meno equivalenti, forse con una lieve superiorità di fanteria dei greci e di cavalleria dei macedoni, ma supponiamo che andassero appena oltre le trentamila unità per parte.
La zona più calda della battaglia fu il fianco sinistro macedone, dove Filippo ordinò al figlio Alessandro, che era alla testa dell’élite della cavalleria nobiliare (gli hetâiroi, i compagni del re), di impegnare con tutte le sue forze il contingente scelto tebano del Battaglione Sacro (i vincitori degli spartani).
Dopo un durissimo scontro fu il fianco sinistro greco, quello ateniese, a cedere alle truppe di Filippo, e questo permise ad Alessandro di accerchiare completamente il fianco destro elleno e di annientare tutto l’esercito tebano, mentre gli ateniesi si diedero alla fuga e vennero uccisi o catturati.
In un solo giorno Filippo ottenne più di quanto avevano conquistato le tre poleis di Atene, Sparta e Tebe in decenni di guerre, ovvero il predominio su tutti i greci e il loro appoggio incondizionato nella futura guerra contro la Persia.
Ora arriviamo finalmente al confronto decisivo tra queste due società, quella ellena della lancia e quella orientale persiana della freccia.
Come abbiamo già illustrato nello scontro di Maratona, fin da principio i greci avevano un immenso vantaggio nel corpo a corpo e i persiani potevano sperare di prevalere solo se erano molti di più (come alle Termopili) oppure se avessero saputo sapientemente sfruttare il terreno, portando la falange o gli opliti in terreni accidentati e usando la maggior duttilità e capacità di agire anche da lontano dei loro contingenti di arcieri, cavalieri, carri da guerra e nel caso elefanti.
Purtroppo per loro al di là dell’Egeo il classico esercito oplitico era stato rimpiazzato da quello immensamente più moderno di tipo macedone. Inoltre sia Filippo, sia Alessandro, erano dotati di molta più immaginazione ed estro tattico di Dario III, il Re dei Re persiano che dovette affrontare l’invasione alessandrina del 334.
Questi infatti si limitò ad utilizzare le vecchie strategie persiane ormai collaudate, impegnando grandi masse di soldati senza grande coesione tra loro (alcuni dicono un milione, ma noi propendiamo per cifre più abbordabili ma comunque considerevoli), cosa a cui già i greci erano abituati e che per i macedoni risultò ancora più facile affrontare.
Battaglia-simbolo di questo incontro fu di sicuro Gaugamela, combattuta nel 331 presso l’omonimo villaggio sulla piana presso il fiume Tigri. La nostra fonte principale è lo storico romano Ammiano, che scrisse molti secoli più tardi dello scontro ma asserì di essersi basato sui diari di generali macedoni per le descrizioni degli eventi.
Le stime che riporta (il solito milione di uomini) sono però alquanto discutibili, e noi ci baseremo su stime più moderne che reputano l’entità delle forze persiane a circa 200.000 fanti, 45.000 cavalieri, duecento carri falcati e quindici elefanti; Alessandro invece schierava 40.000 fanti e 7.000 cavalieri, quindi in ogni caso le proporzioni più ottimistiche gli davano uno svantaggio di cinque a uno.
La battaglia ebbe inizio coi persiani già presenti sul campo di battaglia, infatti Dario, pensando ad un attacco notturno di Alessandro, aveva deciso di tenere all’erta le truppe, lasciandole sveglie tutta la notte. Il risultato fu che l’indomani le loro forze erano già stremate, al contrario delle fresche schiere macedoni.
Unico vero e proprio accorgimento tattico era stato quello di far livellare la pianura dello scontro in modo da far operare al meglio i suoi carri (ma agevolando anche i cavalieri e i falangiti nemici).
Dario si posizionò al centro del suo esercito, per così meglio comandare e coordinare la sua immensa armata. Con sé aveva le sue truppe scelte, ovvero i diecimila immortali, i mercenari greci e i cavalieri della guardia medi e persiani. Entrambe le ali erano composte da cavalleria che proveniva da ogni angolo dell’impero e perfino dei mercenari sciti, terribili cavalieri antenati degli unni.
Davanti all’esercito vennero posizionati i carri che avrebbero dovuto scompaginare la falange mentre le ali di cavalleria avrebbero dovuto circondare le ali macedoni mentre venivano impegnati dalle orde di fanteria.
I macedoni invece erano stati divisi in due, con la parte destra dell’esercito sotto il comando diretto di Alessandro e la parte sinistra affidata a Parmenione, uno dei suoi migliori generali.
Alessandro combatté con i suoi hetâiroi, supportato dagli altri cavalieri pesanti. La cavalleria mercenaria fu divisa in due gruppi, con i veterani disposti sul fianco destro e gli altri davanti ai fanti leggeri armati di giavellotto e agli arcieri macedoni, i quali erano collocati a fianco della falange.
Parmenione era posizionato sulla sinistra con i cavalieri tessali, i mercenari e gli alleati greci e altre unità di cavalleria sul lato più esterno. Il compito di tutto il contingente di Parmenione era quello di contenere l’esercito persiano mentre Alessandro avrebbe dovuto ingaggiare il centro nemico e mandare in rotta la crema delle forze avversarie con la tattica di “Incudine e Martello”.
Il centro era composto dalla falange e da alcuni contingenti di supporto, disposta in doppia fila.
Infatti dato il rapporto di forte svantaggio numerico di Alessandro, il sovrano era conscio degli immensi rischi di aggiramento e conoscendo la debolezza dei falangiti agli attacchi di fianco e da tergo aveva predisposto una seconda linea con l’ordine di proteggere da azioni del genere il corpo principale dei picchieri macedoni.
Durante la battaglia Alessandro adottò una strategia molto particolare, che è stata imitata pochissime volte nella storia. Il suo piano era di attirare la maggior parte possibile della cavalleria persiana sui fianchi, allo scopo di creare un vuoto tra le linee nemiche attraverso il quale potesse essere lanciato un attacco decisivo al centro, contro Dario.
Ciò richiedeva un tempismo e una capacità di manovra a dir poco perfetti, ed avrebbe funzionato solo se il Grande Re avesse attaccato per primo. I macedoni avanzarono con le ali scaglionate, per spingere la cavalleria persiana ad attaccare.
Dario alla fine si decise a muovere, confidando sulla sua schiacciante superiorità numerica.
Lanciò avanti i suoi carri, ma questi vennero fatti a pezzi dalle truppe leggere macedoni disposte prima della falange e non causarono molti danni. Alessandro aveva predisposto una contromisura specifica, proprio per evitare il pericolo di questi temibili strumenti bellici, che avrebbero potuto scompaginare la sua incudine.
Mentre i persiani iniziarono ad effettuare una serie di pesanti attacchi ai fianchi dei macedoni, Alessandro individuò il varco aperto nella formazione nemica e si lanciò con il fior fiore della sua cavalleria verso il centro persiano.
Dispose le sue forze in un potente cuneo, a cui accodò tutte le truppe leggere e le falangi che poté distogliere dallo scontro che ormai infuriava in ogni parte del campo di battaglia.
L’attacco fu un successo e mise fuori gioco velocemente sia la guardia persiana sia i mercenari greci. Dario, per paura di essere ucciso o catturato, si diede alla fuga, facendo crollare così il morale dei suoi uomini che a migliaia lo seguirono.
Il massacro sarebbe stato anche più grande se Alessandro non fosse stato costretto ad intervenire per salvare Parmenione. Questi infatti, dotato di truppe inferiori in numero e qualità a quelle del suo re, aveva combattuto come un leone ma era oramai soverchiato dalle innumerevoli forze persiane del fianco destro.
Per fortuna avvennero due cose: la fuga di Dario fece fuggire molti soldati e portò diversi comandanti e nobili persiani a ritirare i loro contingenti dal campo; inoltre Alessandro fece fare una conversione alle sue truppe, che colpendo il fianco ora esposto dell’ala destra persiana, la mandarono in rotta.
L’insperata vittoria di Alessandro era stata decisiva, ed era merito non solo del suo genio tattico, ma anche della forza e della qualità delle truppe che si erano evolute da quei primi opliti che avevano combattuto con successo a Maratona.
Gli elleni e poi i macedoni avevano infatti fatto grandi passi evolutivi nel modo di combattere in quel secolo e mezzo, mentre i persiani non avevano mai sentito il bisogno di innovarsi per resistere a future minacce esterne, mantenendo il sistema che gli aveva serviti bene fin dai tempi delle prime campagne di Ciro il Grande. Unica innovazione era stato l’arruolamento dei mercenari greci per dare un po’ di consistenza alle loro fanterie, ma non avevano mai deciso di elaborare una propria tattica per sconfiggere i loro antagonisti.
Il prezzo per questa negligenza fu la fine del loro dominio politico e la conquista macedone del loro impero, che porterà la civiltà greca fino all’Indo.
Il mondo da quel momento in poi non sarebbe stato più lo stesso, la civiltà della lancia aveva definitivamente sopraffatto la sua avversaria.
Per oltre due secoli sarà questa a prevalere su tutto l’oriente, per cadere solo quando una nuova forza, che era nata ancora più ad occidente dell’Ellade, non si affaccerà sul palcoscenico della storia con un apparato bellico innovativo e rivoluzionario: Roma!
Alberto Massaiu
2 Comments
Emozionante. Non c’è altro da aggiungere.
Grazie mille Alessandro 🙂