Tutti sanno che la Cina ha annesso il Tibet con un brutale atto di forza. E tutti conoscono il Mahatma “Grande Anima” Gandhi e la sua via per raggiungere l’indipendenza dell’India attraverso la non violenza.
Eppure il grande paese nato dai suoi sforzi e sacrifici fu subito squassato da lotte di religione che erano state tenute congelate dal dominio britannico. La prima conseguenza della cacciata degli inglesi fu la separazione tra l’Unione Indiana e il Pakistan, che subito entrarono in guerra per la regione del Kashmir (a maggioranza musulmana, ma all’epoca controllata da un rajah indù che la donò all’India), conflitto che ogni tanto risorge dalle sue ceneri, mai del tutto spente e sempre pronte ad arroventarsi di nuovo.
Allo stesso tempo un paese che ha le dimensioni di un sub-continente si vide sempre più minacciato da un altro, possente vicino, la Cina. Quest’ultima, dopo la vittoriosa guerra contro i Nazionalisti, era retta da un governo comunista e stava facendo valere il suo potere ad occidente, occupando il Tibet (1949-1950) e iniziando a far valere pretese confinarie tra con l’India, che sfociarono perfino in una breve guerra sino-indiana agli inizi degli anni ’60.
È in questo contesto che si inserisce la fine di Sikkim, un piccolo principato buddista incastonato sulla catena dell’Himalaya (un po’ come gli europei Liechtenstein o l’Andorra), proprio al confine di Cina, Nepal, Bhutan e India.
Il Sikkim nacque nel lontano XIV secolo, quando un principe tibetano chiamato Khye Bumsa si recò nel sud per fondare un regno. Ma fu solo nel 1642 che un suo lontano pronipote, Phuntsog Namgyal, riuscì a farsi incoronare come sovrano di Sikkim da tre grandi lama tibetani. Da allora il piccolo Stato ha dovuto sempre lottare per l’indipendenza contro i vicini regni del Nepal e del Bhutan, via via giostrando le sue alleanze con la superpotenza cinese, gli Stati indiani e infine gli invasori britannici, che nel 1890 imposero il loro protettorato sulla regione.
Nel 1947, con il ritiro inglese, il Sikkim dovette accordarsi con il governo indiano, nella figura del Primo Ministro Nehru. Così l’India ottenne un protettorato molto stringente sul principato montano, controllandone gli affari esteri, la difesa, la diplomazia e perfino le comunicazioni.
Ma neanche questo bastò più nel 1975. Il Sikkim aveva, all’interno dei suoi confini, la possibilità di controllare due passo montani strategici per l’India e la Cina, perciò Indira Gandhi, figlia ed erede di Nehru nella guida del paese, decise segretamente di preparare il terreno per l’invasione e l’annessione del Sikkim alla repubblica dell’India.
La polizia segreta indiana preparò il terreno, finanziando movimenti di resistenza alla monarchia e di simpatia al potente stato meridionale e infine mosse 5.000 uomini alla conquista della capitale, dove vennero sopraffatte le poche guardie dell’ultimo monarca, che venne messo in arresti nel suo stesso palazzo.
Con un plebiscito farsa, dove il 97,5 % della popolazione votò a favore dell’annessione, il Sikkim divenne il ventiduesimo Stato dell’India. Tutto questo fu probabilmente dovuto alla paura della Cina, che infatti protestò per quest’atto di forza arbitrario (come se loro non avessero fatto lo stesso, poco più a nord).
La soluzione giunse nel 2003, ma non con la libera determinazione dei popoli della regione. Anzi, fu proprio l’opposto: la Cina riconobbe il Sikkim come parte dell’India, mentre quest’ultima riconobbe che il Tibet faceva parte della Cina. Tutti d’accordo, tranne per i buddisti tibetani di entrambe le nazioni scomparse.
Alberto Massaiu
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