La vicenda storica dello Stato Libero di Fiume, se comprendiamo anche la Reggenza Italiana del Carnaro, durò quattro anni e cinque mesi, dall’occupazione dei legionari agli ordini di Gabriele D’Annunzio nel settembre del 1919 fino al febbraio del 1924, e si concluse con un accordo che divideva il suo piccolo territorio tra l’Italia, che otteneva la città e alcune strisce di terra costiere, e il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, che si aggiudicò l’entroterra.
Questa minuscola area contesa di appena 28 km², con poco più di 50.000 abitanti (più della metà italiani, con minoranze croate, slovene, ungheresi e tedesche) finì sotto le luci della ribalta della storia nel caos seguito alla fine della Grande Guerra.
Alla Conferenza di Pace di Parigi, nel 1919, questa città, che vantava una certa autonomia anche ai tempi dell’Austria-Ungheria grazie allo status di “corpus separatum” ottenuto nel 1868, fu aspramente contesa tra il Regno d’Italia e il neonato Stato slavo dei Balcani. Gli jugoslavi rivendicarono non solo Fiume e l’intera Istria, ma anche la Dalmazia e la Venezia Giulia, comprese Gorizia e Trieste.
Vittorio Emanuele Orlando, che guidava la delegazione italiana alla conferenza, obiettò che buona parte di questi territori erano stati promessi al suo paese col Patto di Londra del 1915, che aveva spinto l’Italia nelle braccia dell’Intesa, tradendo l’alleanza con Austria e Germania a cui era legata fin dal 1882.
La rivendicazione di Fiume, poi, si fondava anche su criteri etnico-linguistici, ma il presidente americano Wilson si oppose a tale linea, contestando che la città non era specificatamente ricompresa nelle proposte fatte a Londra, tacciando inoltre l’Italia di imperialismo, indebolendo fortemente la sua posizione negoziale.
Questa presa di posizione statunitense portò all’abbandono dei lavori della conferenza da parte di un Orlando infuriato e offeso, cosa che indebolì ulteriormente l’Italia, che alla fine dovette cedere all’idea di Wilson di creare uno Stato Libero di Fiume e di rinunciare a quasi tutta la Dalmazia.
Quando la notizia giunse in Italia fu una doccia fredda per le masse nazionaliste, galvanizzate dalla vittoria contro lo storico nemico austriaco, che pregustavano di sostituire – come la propaganda aveva martellato durante tutto il conflitto – il predominio asburgico sui Balcani occidentali con il proprio.
Fu così che nacque, con la crisi di governo che seguì a tali catastrofiche notizie e la sostituzione di Orlando agli esteri, il mito della “Vittoria Mutilata”.
Nella paralisi che si era verificata a Roma, fu il poeta Gabriele D’Annunzio, ancora non pago di romantiche gesta eroiche, a prendere in mano la situazione con uno spettacolare colpo di mano.
Riuniti 2.500 tra nazionalisti, reduci e militari scontenti, li guidò per una marcia di 70 chilometri fino a Fiume, che prese nel settembre del 1919, facendovi sloggiare le forze anglo-franco-americane che la occupavano in attesa delle decisioni di Parigi.
Si creò così una situazione surreale dove il governo e l’esercito italiano, in ricerca di approvazione nel consesso degli grandi Stati vincitori del conflitto, strinse in un fiacco assedio la città, cercando di trattare per un pacifico abbandono della presa di potere dannunziana.
Dall’altra buona parte dell’opinione pubblica italiana manifestava fortemente a favore degli eroi che avevano avuto il coraggio di prendere in mano la situazione con la forza, garantendo le pretese italiane sulla città.
Alla fine, nell’agosto del 1920, D’Annunzio proclamò ufficialmente la Reggenza Italiana del Carnaro, consacrando il suo nuovo ruolo di leader politico.
«La vostra vittoria è in voi. Nessuno può salvarvi, nessuno vi salverà: non il Governo d’Italia che è insipiente ed è impotente come tutti gli antecessori. Non la Nazione italiana che, dopo la vendemmia della guerra, si lascia pigiare dai piedi sporchi dei disertori e dei traditori come un mucchio di vinacce da far l’acquerello […] Domando alla Città di vita un atto di vita. Fondiamo in Fiume d’Italia, nella Marca Orientale d’Italia, lo Stato Libero del Carnaro»
La sua impresa era però ormai agli sgoccioli. Il nuovo ministro degli esteri Carlo Sforza, un diplomatico navigato, trovò infine un accordo con il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, con la firma del Trattato di Rapallo il 12 novembre del 1920, che riconosceva infine Fiume come Stato Libero, definendone i confini.
D’Annunzio fu disgustato dall’azione di Sforza e rifiutò di lasciare il potere, sostenendo che la città apparteneva all’Italia. Si giunse quindi all’attacco dell’esercito italiano che, nel Natale del 1920, portò alla cacciata dei legionari da Fiume e la morte di una cinquantina di persona negli scontri.
Da quel momento, per i successivi quattro anni, il piccolo paese vivacchiò ai margini della storia, oggetto delle rivendicazioni incrociate dei nazionalismi dei due grandi vicini. Riconosciuto da tutti i principali paesi dell’epoca, compresi Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, fin da subito fu segnato dalla crescita nella popolazione italiana – circa il 60% – delle simpatie per il Partito Nazionale Fascista, che veniva visto come l’unica soluzione per riunirsi alla madrepatria, un po’ come fecero i tedeschi di Danzica con i Nazionalsocialisti.
L’instabilità dello Stato Libero di Fiume portò ad in colpo di stato contro il presidente autonomista Zanella, che puntava ad un allontanamento dalle ingerenze italiane, che portò al potere nel 1922 l’irredentista Attilio Depoli.
Alla fine l’Italia riuscì a spuntarla sotto il governo di Mussolini, che prima – con il pretesto di tutelare l’ordina pubblico – fece occupare la città dall’esercito nel settembre del 1923, poi si accordò con gli jugoslavi nel gennaio 1924 con il Trattato di Roma, che sanciva il possesso italiano sullo Stato Libero di Fiume, tranne alcune periferie e sobborghi, assegnati al Regno dei Serbi, Croati e Sloveni.
La vicenda, conclusasi de facto quell’anno, portò alla nascita di un governo in esilio per gli anni successivi, che in seguito al collasso italiano nella Seconda Guerra Mondiale propose la creazione, per la fine del conflitto, di uno Stato confederale con tre cantoni di Fiume, Sussak e Bisterza o la restaurazione dello Stato Libero di Fiume, scomparso nel 1924.
All’autonomia della città si oppose la Савез комуниста Југославије, ovvero la Lega dei Comunisti di Jugoslavia, che il 3 maggio 1945 occupò la città. Se a parole gli jugoslavi affermarono che avrebbero concesso larga autonomia alla regione, nei fatti procedettero all’eliminazione fisica, mediante processi farsa e fucilazioni sommarie, degli autonomisti. Nonostante questa brutale repressione alle prime elezioni furono le liste di questi ultimi ad affermarsi in città.
Per superare questo ostacolo le forze occupanti titine procedettero da un lato ad epurare con arresti ed espulsioni i maggiori leader autonomisti, dall’altra spaccarono il fronte italiano grazie al sostegno dei comunisti, che iniziarono a fare propaganda tra i loro connazionali sul benessere che c’era in Jugoslavia, al contrario dell’Italia che veniva descritta come un “covo di reazionari riciclati del regime fascista” senza libertà, ai limiti della carestia, con milioni di disoccupati.
Alla fine fu un ennesimo Trattato di Parigi, stavolta del 1947, a decidere nuovamente il destino di Fiume e dell’Istria, che vennero assegnate alla Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia.
Subito dopo, e per gli anni immediatamente successivi, la maggior parte della cittadinanza italiana abbandonò la regione, che venne ripopolata da slavi che provenivano da ogni parte del nuovo Stato titino. Nel 1953, a causa dell’inasprirsi della questione di Trieste, nuova linea di confine tra Italia e Jugoslavia, scoppiarono movimenti anti-italiani a Fiume, con la distruzione delle ultime vestigia della cultura italiana in città.
Ad oggi nella città di Rijeka, attuale nome di Fiume, vivono appena 2.500 italiani su una popolazione di 130.000, per la gran parte croati.
Alberto Massaiu
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