La fondazione di una città è sempre un momento catartico di peso supremo per una comunità. Nell’antichità molti calendari partivano proprio dall’evento fondativo, e Roma stessa non fa eccezione con la sua dicitura “Ab Urbe condita”, che parte a datare la storia in relazione al fatale 21 aprile dell’anno 753 a.C.
Su tale data abbiamo due visioni tra gli storici. I più preferiscono adottare un’ottica molto scettica, in cui si parte dal presupposto che tutto il mito di creazione della città, con la vicenda di Romolo e Remo e una data precisa, sia per l’appunto un esercizio di fantasia degli autori antichi, che non erano dotati del nostro approccio scientifico alla storia.
Dall’altra, invece, ed è quello che indagheremo in questo articolo, si rifà alla visione di storici dell’Ottocento come Fustel de Coulanges, che ebbe a scrivere “Una città, presso gli antichi, non si formava a poco a poco, per l’accrescersi lento del numero degli uomini e delle costruzioni. Si fondava di colpo, tutta in un giorno, in quanto la fondazione di una città era sempre un atto religioso”.
Gli autori antichi, tra cui Varrone, Livio o Plutarco giusto per citarne alcuni, ci hanno tramandato il racconto del rito eseguito da Romolo intorno alle pendici del colle Palatino. Scelto un giorno fausto, e nello specifico il 21 aprile, celebrato dai pastori locali con la festa della Parilia o Palilia, aveva aggiogato ad un aratro di bronzo un toro e una vacca candidi, il primo a destra verso l’esterno e la seconda a sinistra verso l’interno, e li aveva condotti in cerchio tracciato in senso antiorario – che rimanda ad una tradizione ctonia – per delimitare la nuova città.
Al suo centro, poi, aveva scavato nella terra vergine una fossa circolare, il mundus, in cui aveva gettato primizie dell’anno e un pugno di terra proveniente dai luoghi d’origine dei suoi compagni. In tal modo gli antenati e gli dèi Mani di ognuno di loro avrebbero vegliato sull’insediamento appena nato. Una volta chiusa tale fossa era stato elevato al di sopra un altare, sopra il quale Romolo aveva acceso un fuoco, primo focolare della nuova comunità. Il mundus di Romolo costituì il cuore sacro della Roma primitiva fino a quando i villaggi del Palatino, del Campidoglio e del Quirinale si unirono in una sola città e il tempio di Vesta fu posto in un terreno neutro sito tra i tre colli.
La memoria leggendaria di quei fatti è stata in buona parte confermata da scavi avvenuti negli anni Ottanta del XX secolo, in cui sono stati riportati alla luce sul colle Palatino i resti di quello che è stato ribattezzato Muro di Romolo, composto da una palificazione delimitata da uno spazio lasciato vuoto, a cui seguiva un altro muro di tufo inserito nell’argilla e circondato dai resti di un ruscello antichissimo, in cui sono stati recuperati reperti risalenti proprio a metà dell’VIII secolo a.C.
Questo non vuol dire che la zona non fosse già stata abitata o interessata da insediamenti precedenti, ma che ci fu un giorno esatto in cui un re augure, dotato di poteri guerrieri e sacerdotali, abbia fondato in forma giuridico-sacrale la propria città, stringendo un patto – la celebre pax deorum – con i Numi immortali, a cui sarebbero stati dedicati culti pubblici in cambio di fortuna e protezione della propria gente.
Tale schema fondativo con la delimitazione di un’area sacra mediante aratura rituale era tipico della cultura italica fin dal III millennio a.C. e a Roma viene confermato sia dalla tradizione letteraria che dagli scavi moderni, che mostrano la presenza per almeno due secoli la presenza sul Palatino di un pomerio recintato di legno, circondato da uno “spazio di rispetto” senza altri edifici, a cui seguiva l’effettivo muro dell’insediamento.
Il ricordo di quel momento è rimasto anche in epoca storica, quando i romani eruditi indicavano con l’oscuro e simbolico termine di “Roma Quadrata” (probabilmente legato alla scienza augurale) quel piccolo spazio – ricompreso nel cuore di una metropoli di un milione di anime – in cui erano ricompresi i sacri luoghi della capanna di Faustolo, il fico Ruminalis (tra i cui rami si era arenata la culla degli infanti abbandonati nel fiume), il covile della lupa che aveva allattato i gemelli, l’abitazione del Flamine di Giove, le Curiae Veteres e quelle dei sacerdoti Salii.
L’atto fondativo di Romolo lega quindi la monarchia primigenia in un binomio perfetto tra potere regale e autorità sacerdotale, intesa come capacità augurale di leggere e interpretare il volere degli dèi. A loro, infatti, il primo re aveva rivolta un’invocazione mentre portava avanti la faticosa opera fondativa: Iuppiter, padre celeste, Mars pater, garante delle primavere sacre e infine Vesta mater, a cui era stato dedicato il primo fuoco dell’Urbe, acceso sull’altare posto sopra il mundus.
Tale schema verrà recuperato sette secoli dopo da Augusto, che in una profonda opera di riscoperta e valorizzazione del Mos Maiorum, letteralmente il costume degli antenati, legherà alla figura del detentore dell’imperium quella del pontifex maximus, unendo di nuovo il potere giuridico-politico-militare a quello sacrale nella figura del supremo reggitore dello Stato Romano. Significativo, in tal senso, che egli abbia operato affinché la sua casa privata sul Palatino si allargasse inglobando tutte le abitazioni private dei senatori, insistendo così da sola su tutta l’area che comprendeva l’antico pomerio romuleo, trasformandosi nel palazzo imperiale da cui i Cesari governarono l’Orbe fino alla caduta dell’Occidente.
Un ultimo elemento che voglio indagare in questa prima incursione nella Roma primitiva è il Lapis Niger. Scoperto da una serie di scavi del tardo XIX secolo condotti nell’area del Foro, a poca distanza dalla Curia Iulia, questa è un’area di marmo nero sotto la quale era posto un cippo in cui era presente una iscrizione religiosa in latino arcaico scritta con caratteri di derivazione greco-etrusca e andamento bustrofedico (alternativamente, da sinistra a destra e da destra a sinistra, come si muovono i buoi quando arano il campo) risalente alla metà del VI secolo a.C. che segnala un divieto di passaggio sull’area, pena la consacrazione agli dèi inferi. In pratica una vera e propria maledizione rivolta a chiunque avesse avuto l’ardire di violare quel sito ancestrale e misterioso.
Su questo luogo oscuro si lega la tradizione come luogo di sepoltura o di morte di Romolo. Questi, infatti, secondo alcuni “ascese” al cielo durante una notte di tempesta, trasformato in divinità, secondo altri venne assassinato dai senatori, irati con lui per il poco rispetto dimostrato verso il loro ruolo. Il Lapis Niger potrebbe essere stato eretto proprio ad indicare il passaggio più o meno violento del primo re dal mondo terreno a quello celeste.
Un altro segno tangibile in cui storia, leggenda e tradizione si fondono insieme nelle origini della Città Eterna.
Alberto Massaiu
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