«Ho posto gli occhi sulle grandi mura di Babilonia antica, su cui resta una strada per carri, e sulla statua
di Zeus presso l’Alfeo, e i giardini pensili, e il Colosso del dio Sole, e il gran lavoro dell’alte piramidi e di Mausolo la gran tomba.
Ma quando io vidi la casa d’Artemide che sormonta le nubi, persero tutte
codeste meraviglie il loro splendore e allora dissi: “Invero, mai il Sole vide una grandezza così ampia”»
– Antipatro di Sidone, II secolo a.C. –
Con questo epigramma il letterato e poeta greco Antipatro di Sidone citava per la prima volta quell’insieme di monumenti che passarono alla storia come le Sette Meraviglie del Mondo Antico. Ora, prima di procedere oltre, dobbiamo ragionare su alcuni punti:
Colui che ci parla è un greco vissuto in un “mondo” relativamente circoscritto, che non poteva valutare le meraviglie dell’India, della Cina o delle Americhe. La lista, perciò, riguarda solo quello che poteva conoscere un uomo di cultura del suo tempo, che spaziava dalla Grecia continentale all’Anatolia, passando per la costa della Siria fino all’Egitto.
Esclude ciò che era presente, ad esempio, nella Persia interna con le sue grandi capitali di Persepoli, Susa o Ecbatana, o ancora in Occidente, come la valle dei templi di Agrigento o il grande arsenale militare di Cartagine.
La scelta fu quindi puramente arbitraria, e oltretutto si riferisce ad una serie di monumenti che convissero assieme solo per pochi decenni a metà del III secolo a.C.
Prima di iniziare a narrare la storia delle Sette Meraviglie del Mondo Antico, qualche curiosità:
- La più antica tra le sette meraviglie è anche l’unica ancora ammirabile da occhi umani, ovvero la grande Piramide di Cheope, che vanta una longevità invidiabile di come minimo 4.500 anni.
- La più precaria fu invece il Colosso di Rodi, che restò in piedi appena 67 anni, crollando in seguito ad un violento terremoto che investì l’isola nel 226 a.C.
- L’elenco delle meraviglie venne aggiornato nei secoli, e se ne annoverarono nel tempo fino a 19, ma alla fine la lista “canonica” si ridusse alle sette citate da Antipatro.
Tutte erano situate nei territori conquistati dal grande Alessandro, due in Europa (Zeus di Olimpia e Colosso di Rodi), tre in Asia (Tempio di Artemide ad Efeso, il Mausoleo di Alicarnasso, i Giardini Pensili di Babilonia) e due in Africa (la Grande Piramide di Cheope e il Faro di Alessandria).
Di seguito, vedremo assieme meraviglia per meraviglia, partendo dalle più antiche e andando fino alle più recenti.
La Grande Piramide di Cheope – dal 2.550 a.C. circa ad oggi
Parte di un complesso architettonico tra i più iconici, misteriosi ed enigmatici al mondo (in cui sono incluse altre due piramidi di minore dimensione di Chefren e Micerino, più altre strutture ancillari e la altrettanto celebre sfinge), la piramide attribuita al faraone Khufu è stata per millenni l’edificio più alto al mondo con i suoi quasi 150 metri di altezza, superati per la prima volta solo dalla guglia della cattedrale di Lincoln, in Inghilterra, innalzata in pieno Medioevo.
La tradizione vuole che per la sua costruzione furono necessari circa vent’anni e oltre due milioni e 300.000 blocchi di pietra dal peso medio di due tonnellate e mezzo. La parte esterna era poi ricoperta da uno splendido strato di candido calcare bianco, che andò purtroppo perduto in seguito ad un pesante terremoto che investì la zona nel XIV secolo d.C. Quanto rimase dopo il cataclisma venne riutilizzato dai musulmani che ormai dominavano la regione per ricostruire la città del Cairo.
Per le parti più interne, come le camere sepolcrali, al calcaree è stato alternato il ben più solido granito, tagliato e posizionato con una precisione millimetrica.
Recenti studi, effettuati attraverso l’analisi al carbonio-14 di alcuni cunei di cedro trovati dentro la cosiddetta Camera della Regina, hanno messo in discussione la tradizionale data di costruzione (e quindi anche l’attribuzione al faraone Cheope) della struttura, spostandola indietro di almeno cinque, se non sette secoli, tra il 3.300 e il 3.100 a.C.
La spiegazione più semplice del collegamento con Cheope potrebbe essere un’abitudine sempre esistita nella storia umana, ovvero il riutilizzo di un edificio più antico – di cui era andata perduta la memoria o la funzione – ad un nuovo fine, in questo caso sepolcrale. Ad ogni modo, nella Grande Piramide sono state individuate tre camere, poste al suo interno e collegate da lunghi corridoi e cunicoli:
- La camera ipogea, scolpita al di sotto della piramide nella viva roccia, che appare incompiuta
- La Camera della Regina, a metà della struttura
- La Camera del Re, più in alto
Il complesso intorno alla piramide era imponente, e per secoli venne utilizzato come necropoli regale da varie dinastie di faraoni. Nel mondo occidentale la sua storia venne tramandata da Erodoto, che attinse le informazioni dai sacerdoti egizi che ancora tramandavano un lontano eco del suo millenario utilizzo.
Nei primi anni del IX secolo d.C. il settimo califfo abbasside al-Maʾmūn vi fece scavare una galleria al fine di saccheggiare i presunti tesori di cui si favoleggiava ancora alla sua epoca, ma la trovò vuota. Da quel momento in poi il sito fu abbandonato a se stesso, utilizzato di tanto in tanto come cava di materiale edile.
Dopo l’invasione francese dell’Egitto da parte di Napoleone, che combatté una delle sue più celebri battaglie proprio sotto le grandi piramidi di Giza, scoppiò in tutta Europa e America un enorme interesse sull’epoca dei faraoni, che divenne una vera e propria “egittomania”. Da quel momento in poi lo studio e la preservazione del sito archeologico divenne oggetto di tutela da parte dell’amministrazione egiziana, cosa che l’ha portata, unica tra tutte le Sette Meraviglie del Mondo Antico, a giungere intatta fino ad oggi.
I Giardini Pensili di Babilonia – dal 590 a.C. circa a ?
Questa è la più sfuggente – secondo alcuni potrebbe essere anche solo un’invenzione, o nel migliore dei casi una esagerazione di qualcosa di molto piccolo – e misteriosa tra tutte le Sette Meraviglie del Mondo Antico. Persino la sua esatta ubicazione è incerta, con alcuni studiosi che non la collocano neanche a Babilonia, bensì nella capitale assira di Ninive.
Le stesse fonti antiche che citano questa struttura, pur concordando nella descrizione dei giardini, non ne forniscono infatti alcuna localizzazione precisa all’interno della città.
Secondo il greco Ctesia di Cnido, la loro costruzione andrebbe attribuita a Nabucodonosor II, che cercò di alleviare la nostalgia della sua moglie prediletta, la regina Amitis, che proveniva dalla Media, terra di ombrosi boschi di montagna rigogliosi di fiori, alberi e sorgenti d’acqua. In seguito altri autori, tra cui Diodoro Siculo, scrissero di giardini su più livelli dotati di piante e alberi di ogni genere, irrigati dalle acque dell’Eufrate.
Da più recenti studi è emersa la teoria secondo cui i giardini non sarebbero stati affatto situati a Babilonia, bensì nella capitale assira di Ninive, sita oltre 500 chilometri più a nord. Questa linea di pensiero fonda le sue basi sul fatto che le fonti babilonesi tacciono del tutto riguardo all’esistenza dei giardini, mentre quelle assire testimoniano di importanti lavori idrici a Ninive sotto Sennacherib (668-631 a.C.) nonché della presenza di giardini presso le rive del Khors.
Ad ogni modo, che fossero siti a Babilonia o a Ninive, di sicuro i giardini sono stati di natura ornamentale e non alimentare. Il dispendio di energie, risorse economiche e di uomini atto a tenerli in vita dimostrava la ferma volontà – e la grande capacità ingegneristica – di questi antichi popoli, che furono capaci di creare un piccolo eden dentro città arse dal sole, lottando contro le asperità della natura.
Purtroppo il complesso idraulico utilizzato per irrigare i giardini con la frequenza e la quantità di acqua necessaria era estremamente fragile, e non è sopravvissuto in alcun modo ai mutamenti politici, economici e naturali della città. Nonostante tutti gli scavi archeologici condotti dalla fine dell’Ottocento ad oggi non è stato ancora possibile trovare l’esatta ubicazione degli stessi.
L’Artemision di Efeso – dal 550 a.C. al 401 d.C.
Ad una cinquantina di chilometri dalla moderna città di Smirne, nel cuore dell’Asia Minore di cultura greco-ionica, in piena epoca classica venne innalzato uno dei più imponenti complessi templari dell’antichità. A volerlo nelle forme marmoree che lo hanno reso immortale – e una delle Sette Meraviglie del Mondo Antico – fu l’altrettanto leggendario sovrano della Lidia, Creso.
Il sito non venne scelto a caso, in quanto era un antichissimo luogo di culto fin dall’Età del Bronzo, in cui si venerava la Grande Madre.
All’apogeo del suo splendore, il magnifico tempio in stile ionico, costruito interamente in marmo, poteva vantare più di cento colonne che superavano i 18 metri di altezza. Al suo interno, nel naos, ospitava una statua della dea Artemide alta oltre due metri. Questa prima struttura fu distrutta nel 356 a.C. da Erostrato, un pastore che lo incendiò sperando di rendere immortale il proprio nome. L’edificio rimase in rovina fino al tempo di Alessandro, che passò da quelle parti durante le sue campagne militari alla conquista della Persia, ma la fama e le offerte dei pellegrini permisero una sua successiva ricostruzione, che lo portò a raggiungere dimensioni e bellezza eccezionali, anche grazie alla collaborazione di celeberrimi scultori greci quali Prassitele e Skopas.
Il nuovo tempio rimase oggetto di stupore e ammirazione in tutto il mondo per i successivi otto secoli, nonostante cataclismi naturali e guerre, tra cui anche il saccheggio del santuario da parte dei goti nel 263 d.C. Il colpo di grazia, però, fu inflitto dall’avvento della religione cristiana. Verso il 401 d.C., sobillati da uno dei più famosi padri della chiesa, Giovanni Crisostomo, una folla arsa da cieco e violento zelo antipagano diede alle fiamme e distrusse quanto rimaneva del santuario.
La Statua di Zeus ad Olimpia – dal 435 a.C. al 475 d.C.
È stata l’opera – a mio parere la più bella tra le Sette Meraviglie del Mondo Antico -che, insieme alla statua di Atena Parthénos, collocata sopra l’acropoli della capitale dell’Attica, ha reso eterno il nome dello scultore Fidia. Realizzata in oro e avorio nell’arco di circa venti anni, era alta ben 12 metri sopra il livello del suolo, e rappresentava il dio assiso su di un grande trono, che fissava con severo cipiglio il visitatore che entrava dentro il tempio dedicato al padre degli dèi presso Olimpia.
Poco lontano dal tempio venne predisposto il suo laboratorio (le cui rovine ho avuto modo di ammirare di persona tanti anni fa) che è stato scavato negli anni Cinquanta del XX secolo, cosa che ha permesso di riportare alla luce le tracce delle matrici utilizzate per il corpo, le vesti e gli oggetti imbracciati da Zeus, con resti di avorio, ceramica, pasta vitrea e ossidiana, punteruoli, palette, martelli, lamine di piombo e altro.
Lo stesso basamento risultava titanico, di sei metri per dieci, e il colosso era talmente alto che Strabone ebbe a dire che se si fosse alzato in piedi avrebbe facilmente scoperchiato la copertura del santuario in cui era collocato.
«Il dio, fatto d’oro e d’avorio, è seduto in trono. Gli sta sulla testa una corona lavorata in forma di ramoscelli d’ulivo. Nella mano destra regge una Nike, anch’essa crisoelefantina, con una benda e, sulla testa, una corona.
Nella mano sinistra del dio è uno scettro ornato di ogni tipo di metallo, e l’uccello che sta posato sullo scettro è l’aquila. D’oro sono anche i calzari del dio e così pure il manto. Nel manto sono ricamate figurine di animali e fiori di giglio»
– Pausania, Viaggio in Grecia –
Il paradosso maggiore è che, nonostante le numerosissime descrizioni fatte da vari testimoni oculari che ebbero modo di ammirarlo – perfino Caligola ne fu talmente conquistato che pensò di trafugarlo per collocarlo a Roma – non sono rimaste delle fedeli riproduzioni dell’opera. Uniche effigi giunte fino a noi, per quanto estremamente stilizzate, riguardano la numismatica romana e delle gemme incise.
La statua rimase oggetto di stupore per quasi ottocento anni, perfino quando il tempio venne chiuso con la cristianizzazione dell’Impero Romano. Secondo una tradizione che risale allo storico Giorgio Cedreno, all’inizio del V secolo la statua entrò a far parte della collezione di opere d’arte pagane di Lauso, che la collocò all’interno del proprio palazzo a Costantinopoli, e qui andò distrutta assieme al resto della raccolta in un grande incendio che scoppiò nel 475 d.C.
Il Mausoleo di Alicarnasso – dal 351 a.C. al 1494 d.C.
Il mausoleo di Alicarnasso è la monumentale sepoltura che la regina Artemisia ordinò di innalzare sopra la città di Alicarnasso per onorare il marito – e fratello, secondo gli usi incestuosi orientali – Mausolo II, satrapo della Caria per conto dei sovrani di Persia. Per la sua realizzazione furono necessari vent’anni, e al suo culmine svettava per ben oltre quaranta metri dal suolo. Non venne badato a spese, e furono ingaggiati i migliori esperti dell’epoca nelle proprie arti tra architetti, scultori, intagliatori del marmo.
«I lati sud e nord hanno una lunghezza di 18,67 metri, mentre sul fronte è più corto. Il perimetro completo è di 130 metri, in altezza arriva a 11 metri ed è circondato da 36 colonne. Il perimetro del colonnato è chiamato pteron. Skopas scolpì il lato est, Briasside il lato nord, Timoteo il lato sud e Leochares quello ovest ma, prima che completassero l’opera, la regina morì.
Essi non lasciarono il lavoro comunque, finché non fu completato, decisero che sarebbe stato un monumento sia per la loro gloria sia per quella della loro arte ed anche oggi essi competono gli uni con gli altri. Sullo pteron si innalza una piramide alta quanto la parte bassa dell’edificio che ha 24 scalini e si assottiglia progressivamente fino alla punta.
In cima c’è una quadriga di marmo scolpita da Pitide. Se si comprende anche questo l’insieme raggiunge l’altezza di 41,50 metri»
– Plinio il Vecchio, Naturalis Historia –
Il monumento sopravvisse fortunosamente al pesantissimo assedio della città portato avanti dai soldati di Alessandro nel 334 a.C., ma il centro urbano non si riprese mai del tutto dal disastro, e la sua fortuna fu ereditata da altri insediamenti costieri della regione. Già ai tempi di Cicerone egli descrisse il luogo come spopolato e desolato, cosa che metteva ancora più in risalto la magnificenza del mausoleo, che invece continuava a svettare in tutta la sua magnificenza sulle rovine dell’antica pólis della Ionia.
Il suo fato giunse oltre un millennio dopo – rendendola una delle più longeve tra le Sette Meraviglie del Mondo Antico – quando nel XIV secolo fu squassato da un tremendo terremoto, che fece crollare intere sezioni e, ovviamente, la grande quadriga collocata sulla sua vetta. Le dimensioni dei cavalli e dei vari resti sopravvissuti, ora in gran parte conservati al British Museum, offrono una vaga seppur impressionante idea della titanicità dell’opera, e di come un tempo fosse capace di incutere rispetto e ammirazione nei viaggiatori che passavano presso il luogo dell’ultimo riposo di Mausolo e Artemisia.
Da allora il termine stesso è entrato nell’uso di molte lingue europee ad indicare una grande opera funeraria in cui il ricordo del caro estinto si unisce alla ricerca del sublime, in una eroica lotta – seppur destinata ad essere sempre sconfitta – per preservare il proprio nome nell’incommensurabile spazio dell’eternità.
I resti del mausoleo vennero utilizzati infine dai Cavalieri Ospitalieri di San Giovanni, che all’epoca controllavano l’isola di Rodi e la cittadella fortificata di Bodrum, sorta presso le rovine di Alicarnasso, come cava di materiale per rafforzare le difese del castello contro l’avanzata dei turchi provenienti dall’interno dell’Anatolia.
Nel 1404 solo la colossale base del Mausoleion rimaneva a testimoniare il suo millenario passato, mentre buona parte dei resti delle statue, delle colonne e delle gradinate vennero incorporate nel sistema difensivo di Bodrum fino al 1494, talvolta venendo semplicemente sbriciolati per farne malta.
Nonostante questa barbarie artistica, tutto fu vano, in quanto Solimano il Magnifico riuscì a conquistare entro il 1522 sia Bodrum che la stessa isola di Rodi, cacciando i cavalieri fino a Malta, in cui crearono uno Stato-Fortezza che resistette fino alla conquista di Napoleone, nel 1798.
Il Colosso di Rodi – dal 293 a.C. al 226 a.C.
La sesta tra le Sette Meraviglie del Mondo Antico fu il frutto della volontà dell’intera popolazione di ringraziare i numi celesti per la protezione ottenuta dalla pólis durante il terribile assedio mosso dal figlio di Antigono, uno dei diadokoi dell’ormai defunto Alessandro, Demetrio Poliorcete (letteralmente colui che conquista le città fortificate) nel 305 a.C.
Egli invase Rodi con un’armata di 40.000 uomini e navi da guerra dotate di enormi catapulte capaci di abbattere le mura marittime della città. Non riuscendo a piegare la resistenza nemica, egli fece costruire ai suoi ingegneri una colossale elepoli (una torre d’assedio che in greco significa “prenditrice di città”), ma anche questo tentativo risultò infruttuoso in quando i rodiesi allagarono il terreno prospiciente le mura, impedendo alla torre d’assedio di muoversi e rendendola inoffensiva. L’assedio terminò nel 304 a.C., quando arrivò una flotta alleata in difesa della città e Demetrio dovette ripiegare abbandonando la maggior parte dell’equipaggiamento, subendo uno dei più pesanti smacchi della sua carriera militare.
Per celebrare la loro vittoria, i cittadini decisero di costruire una gigantesca statua in onore di Helios, il loro nume protettore. La costruzione fu affidata a Carete di Lindo, allievo del celebre Lisippo, che aveva costruito una statua di Zeus nella antica agorà di Taranto, famosa per la sua altezza di circa 18 metri.
La realizzazione dell’opera richiese una dozzina d’anni, e alla fine quasi doppiò le gesta del maestro, raggiungendo l’inusitata altezza di 32 metri. La struttura era molto probabilmente costituita da colonne di pietra con delle putrelle di ferro inserite al suo interno, a cui vennero agganciate le piastre di bronzo del rivestimento esterno. Quasi come se fosse un gesto di spregio al nemico, fu usata come impalcatura la torre di assedio abbandonata sul posto da Demetrio Poliorcete.
«Il più ammirato di tutti i colossi era quello del Sole che si trovava a Rodi opera di Carete di Lindo, discepolo di Lisippo. Esso era alto 32 metri. Questa statua, caduta a terra dopo sessantasei anni a causa di un terremoto, anche se a terra, costituisce tuttavia ugualmente uno spettacolo meraviglioso. Pochi possono abbracciare il suo pollice, e le dita sono più grandi che molte altre statue tutte intere.
Vaste cavità si aprono nelle membra spezzate; all’interno si possono osservare pietre di grandi dimensioni, del cui peso l’artista si era servito per consolidare il colosso durante la costruzione. Dicono che fu costruito in dodici anni e con una spesa di 300 talenti ricavati dalla vendita del materiale abbandonato dal re Demetrio allorché, stanco del suo prolungarsi, tolse l’assedio a Rodi. Nella stessa città ci sono cento altri colossi più piccoli di questo, ma tali da rendere famoso qualunque luogo in cui si trovasse anche uno solo di essi»
– Plinio il Vecchio, Naturalis Historia –
Secondo alcune ricostruzioni antiche, il Colosso di Rodi doveva raffigurare il dio Helios con le gambe divaricate e i piedi poggiati alle estremità del porto di Mandraki, così da far passare sotto di sé tutte le navi che si recavano all’interno del porto. Alcuni affermavano che fungesse anche da faro, grazie ad una grande fiaccola tenuta tra le mani. Questa immagine tradizionale è stata però soppiantata da ipotesi più recenti fondate su alcune copie romane marmoree della statua del dio, che fanno ritenere che il colosso avesse una corona raggiata e un braccio sollevato, per cui nella postura sarebbe stato simile alla attuale Statua della Libertà che si può ammirare a Parigi (in piccolo) e a New York (in grande).
Come precedentemente detto, la statua restò in piedi per appena 67 anni, finché Rodi fu colpita da un terremoto che, nel 226 a.C., la fece crollare. La statua rimase in terra, spezzata in più pezzi, e Tolomeo III si offrì di ricostruirla, ma i rodiesi rifiutarono temendo l’ira del dio.
Quasi un millennio dopo, nel 653 d.C., l’isola fu conquistata dagli arabi e questi ultimi portarono via la statua tagliandola in un numero imprecisato di blocchi e vendendola a un ebreo di Emesa, di cui si persero ben presto le tracce. Si narra che ancora allora le dimensioni dei resti erano tali che fu necessario impiegare ben 980 cammelli per portarseli via.
Il Faro di Alessandria – dal 280 a.C. circa al 1323 d.C.
Sulla costa settentrionale dell’Egitto, il grande Alessandro aveva inaugurato la tradizione di fondare città con il proprio nome. Complice la nascita di uno Stato indipendente che, dopo la sua morte, divenne uno dei più fortunati e longevi tra quelli dei suoi successori e, soprattutto, la rese sua capitale, ben presto Alessandria divenne una della più grandi, prospere e dinamiche metropoli dell’antichità, toccando al suo apogeo ben 300.000 abitanti liberi, esclusa la popolazione in schiavitù.
Una grande capitale aveva bisogno di grandi infrastrutture, e i primi Tolomei decisero che, oltre a palazzi, templi, fortificazioni, la celeberrima Biblioteca e la tomba dello stesso Alessandro, di cui ho parlato in questo mio articolo (LINK), sarebbe servito qualcosa che potesse aiutare la crescita del commercio marittimo, che divenne presto il fulcro economico dell’intero Egitto.
Da qui nacque l’idea di innalzare presso l’isola di Faro – da qui il nome che ha dato origine al termine di uso comune in italiano per indicare tali strutture di segnalazione marinara – una gigantesca torre che sarebbe stata dotata, sulla propria vetta, di un avveniristico sistema di segnalazione luminosa che potesse indicare la rotta sicura alle imbarcazioni che si fossero avvicinate ai porti di Alessandria.
L’isola venne collegata alla terraferma attraverso l’Heptastadion, una strada rialzata lunga 180 metri che tagliava il mare, collegando il complesso alla terraferma. I lavori ebbero inizio verso il 300 a.C. e terminarono circa venti anni dopo, con un costo esorbitante di 800 talenti. Il faro, alto 134 metri, venne dedicato al padre degli dèi, nella sua declinazione di Zeus Soter, ovvero «il Salvatore», in quanto protettore dei marinai. Era costituito da un alto basamento quadrangolare, che ospitava le stanze degli addetti e le rampe per il trasporto del combustibile. A questo si sovrapponeva una torre ottagonale e quindi una costruzione cilindrica sormontata da una statua di Zeus, più tardi sostituita da quella di Helios.
La struttura segnalava la posizione del porto alle navi, di giorno mediante degli speciali specchi di bronzo lucidato che riflettevano la luce del sole, di notte mediante dei fuochi che si potevano vedere fino a quasi 50 chilometri di distanza. La costruzione si rivelò di grande utilità e fece da apripista alla realizzazione di analoghi fari in molti altri porti del Mar Mediterraneo, ma nei secoli successivi questa tecnologia andò perduta fino a che non vennero riscoperte nel XII secolo dalle Repubbliche Marinare Italiane, prime tra tutte Genova.
Il faro fu la seconda più longeva tra le Sette Meraviglie del Mondo Antico, seconda solo alla Grande Piramide. Rimase oltretutto in funzione per sedici secoli sotto i Tolomei, i romani e gli arabi, fino a quando nel XIV secolo due terremoti, tra il 1303 e il 1323, lo danneggiarono irreparabilmente. Pochi decenni dopo un viaggiatore musulmano descrisse la struttura con meste parole:
«Durante quel viaggio andai a vedere il faro: uno dei lati era caduto in rovina, ma lo descriverei comunque come un edificio quadrato che si staglia nel cielo. La porta è in alto rispetto al terreno e di fronte, alla stessa altezza, c’è un edificio: fra questo e la porta vengono messe delle assi di legno a mo’ di passerella e quando le tolgono non vi è più modo di entrare. Dentro la porta c’è una nicchia dove il guardiano può starsene seduto e all’interno si aprono diversi locali. Il passaggio di entrata misura 9 spanne, il muro 10 e ognuno dei quattro lati, 140.
Sorge su un’alta collina a una parasanga da Alessandria, al termine di una lunga striscia di terra che ospita il cimitero, circondata per tre lati dal mare — il quale giunge sino alle mura della città, sicché solo partendo da Alessandria si può arrivare al faro via terra.
Quando feci ritorno nel Maghreb, nell’anno dall’egìra 750 (1349 d.C.), andai a rivederlo e lo trovai in un tale stato di rovina che non si riusciva più non solo a entrare ma nemmeno a raggiungere la porta»
Nel 1480 il sultano d’Egitto Qaytbay utilizzò le solidissime fondamenta delle sue rovine per la costruzione di un forte che doveva servire a proteggere il suo paese dalla montante marea ottomana. Molte delle sue parti sono finite in fondo al mare a causa di terremoti e maremoti, e solo di recente sono state esplorate da spedizioni subacquee condotte nel 1968 e negli anni Novanta del secolo scorso, che hanno riportato sulla terraferma numerosi manufatti.
Conclusione
Come detto all’inizio, le Sette Meraviglie del Mondo Antico sono solo una ristretta e arbitraria selezione compiuta da eruditi di scuola ellenistica in quello straordinario periodo culturale che ricomprende gli anni che seguirono la morte di Alessandro, in cui l’Occidente e l’Oriente non conobbero più barriere dalla Grecia continentale (inclusa anche la Magna Grecia italiota) fino ai confini dell’India.
Di strutture straordinarie l’uomo ne aveva realizzate, e ne realizzò, anche di più, in quei secoli lontani da noi. Eppure, per un motivo o per un’altro, queste sette rimasero nella memoria anche quando crollarono o vennero distrutte dalla furia degli elementi, dell’uomo o anche solo dall’inclemente incedere del tempo.
Quello che rimane di loro è la memoria di un tempo straordinario in cui gli esseri umani furono capaci di concepire e realizzare opere che andavano al di là di ciò che si pensava fosse concesso ai mortali, sfiorando la grandezza a cui solo i numi celesti potevano ambire.
Alberto Massaiu
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