La Megali Idea fu legata fin dalle origini al pensiero nazionalista greco, e animò tutti i governi di Atene per quasi 100 anni, fino alla Guerra Greco-Turca del 1919-1922.
“Vi sono due centri dell’Ellenismo. Atene è la capitale del regno.
Costantinopoli è la grande capitale, la Città, il sogno e la speranza di tutti i greci”
– Michael Llewellyn Smith –
Per tutto il XIX e la prima parte del XX secolo molti paesi si andarono a formare sulla spinta di forti nazionalismi. Le rivendicazioni patriottiche, legate al passato medioevale o ancora più antico, caratterizzavano ogni giovane Stato.
L’Italia fu da esempio, con rivendicazioni verso il Trentino, l’Istria e la Dalmazia (un tempo veneziane), la Corsica (un tempo genovese), Malta e via dicendo.
La Grecia, invece, fin dalla sua nascita tra il 1821 e il 1829, puntò al suo passato imperiale bizantino. Si delineò quindi la Megali Idea, ovvero il sogno di restaurare l’antico Stato, ricomprendendo i territori da entrambe le sponde dell’Egeo popolati da significative popolazioni greco-ortodosse, riportando la capitale nazionale a Costantinopoli, da cui dovevano essere cacciati gli antichi conquistatori turchi.
Ogni governo greco fino al 1922 tenne nel suo programma una sezione dedicata, nella politica estera, a questa tematica.
La svolta decisiva avvenne con la Prima Guerra Mondiale e il primo ministro Eleutherios Venizelos. La Grecia aveva partecipato al conflitto con le potenze vincitrici, mentre l’Impero Ottomano stava dalla parte perdente, perciò i greci non furono mai così vicini ad ottenere il loro ardente desiderio.
I paesi della Triplice Intesa, con a capo la Gran Bretagna, un paese fortemente filoellenico fin dalla sua nascita nella prima metà dell’Ottocento, avevano promesso a Venizelos importanti compensazioni territoriali per aprire un ennesimo fronte balcanico contro gli Imperi Centrali. Venizelos si vide promessa la Tracia orientale con la storica città di Adrianopoli (la Edirne turca), la regione di Smirne e le isole di Imbro e Tenedo, in cui una parte predominante della popolazione era ancora ellenofona all’inizio del XX secolo.
Alla conferenza di pace di Parigi del 1919 Venizelos fece pressione sugli Alleati per attuare il suo sogno di una “Grande Grecia”, che avrebbe compreso l’Epiro settentrionale, la totalità della Tracia e la Ionia, recuperando così alcuni territori appartenuti all’Impero Romano d’Oriente e – nelle più rosee speranze – perfino Costantinopoli, che al momento si trovava sotto il controllo di una forza internazionale composta da truppe franco-britanniche.
Conclusa la guerra contro Berlino e Vienna, però, si iniziavano ad intravedere le prime crepe tra i membri dell’intesa, complici le promesse spesso esagerate e confliggenti fatte da Londra per assicurarsi il più ampio sostegno nel conflitto. Capofila in tal senso era il governo italiano, a cui era stato promesso, con gli accordi di San Giovanni di Moriana, un ampio spazio coloniale che in parte si sovrapponeva ai territori anatolici promessi ai greci. In più il governo di Roma temeva anche per la sua recente acquisizione di Rodi e del Dodecaneso, isole chiaramente elleniche.
Il primo ministro britannico David Lloyd George riuscì però a convincere la Francia e gli Stati Uniti ad impedire all’Italia d’intervenire in Anatolia occidentale. L’esercito greco poté quindi sbarcare indisturbato presso la strategica città di Smirne il 15 maggio del 1919.
“Ho l’impressione che le concessioni fatte alla Grecia in Asia Minore […] saranno così ampie da valere un’altra Grecia, così vaste e non meno ricche [dell’attuale], e che si aggiungeranno alla Grecia, già raddoppiata, per l’essere uscita vittoriosa dalle Guerre balcaniche”
– Da una lettera di Eleutherios Venizelos al re Konstantinos di Grecia –
I primi reparti greci a rimettere piede nell’antica Asia Minore (persa del tutto in seguito alla caduta di Philadelphia nel 1391) furono 20.000 soldati appartenenti al 4° e al 5° reggimento di fanteria e al 38° reggimento di Evzonoi. La giustificazione legale di tale sbarco si trova nell’articolo 7 del Trattato d’Armistizio di Mudros, firmato il 30 ottobre del 1918, che consentiva di «occupare un qualsiasi punto strategico del territorio turco, in qualsiasi situazione che minacci la sicurezza degli alleati».
In quel momento la resistenza turca risultò minima, anche perché era in corso una vera e propria guerra civile tra il morente governo imperiale di Mehmed VI Vahideddin, trentaseiesimo e ultimo sulṭān della Sublime Porta e centesimo khalīfa dell’Islām, e quello rivoluzionario e repubblicano di Ankara, in cui Mustafa Kemal assunse un ruolo sempre più predominante.
Complice lo stato di totale sbando ottomano, le forze elleniche raggiunsero luoghi di grande suggestione nazionale legati al passato imperiale romeo: Ninfeo, Magnesia, Meandro, Tralles (la moderna Aydin), Pergamo, Filadelfia. La giustificazione strategica di questa avanzata fu la necessità di stabilire un perimetro difensivo in profondità per Smyrne. Nel frattempo, però, reparti ellenici si allungarono anche in Tracia, arrivando fino a Didymoteicho, a meno di 300 chilometri da Costantinopoli.
Fu in questa situazione che i delegati di Francia, Gran Bretagna, Italia, Grecia e Impero Ottomano si incontrarono a Sèvres e firmarono un accordo che riduceva la un tempo grande e temibile Sublime Porta, estesa su tre continenti, in uno staterello circoscritto a neanche tutta l’Anatolia.
In base a questo accordo, i turchi avrebbero dovuto cedere al Regno di Grecia la Tracia Orientale fino alla linea di Çatalca, le isole di Imbro e di Tenedo e il vilayet di Smyrne. La parte del leone, però, la facevano ovviamente francesi e britannici, che si spartirono in aeree di influenza il Medio Oriente, e persino gli italiani strapparono la conferma del possesso delle isole del Dodecaneso (annesse durante la guerra italo-turca del 1911-1912) e una zona d’influenza nella prospiciente parte di Anatolia meridionale.
Questo accordo distrusse del tutto la credibilità di Mehmed VI Vahideddin di fronte al suo popolo, e fece così gioco alla fazione repubblicana, che poté infine prevalere nella guerra civile, ponendo fine alla monarchia.
Il fronte turco uscì così più forte e coeso da questo accordo, mentre al contrario i termini del trattato divisero il governo greco. Atene, infatti, non si riteneva del tutto soddisfatta dai punti di Sèvres: innanzi tutto perché Costantinopoli restava fuori dalla sua sfera d’influenza e poi perché Smyrne e la sua regione non risultavano completamente integrate al Regno di Grecia. In base al trattato, infatti, la Grecia avrebbe potuto solo amministrare l’enclave smirniota, che sarebbe restata nominalmente sotto la corona del sulṭān ottomano. Un parlamento locale doveva esservi eletto, e solo dopo cinque anni si sarebbe potuto indire un referendum sotto l’egida della Società delle Nazioni al fine di consultare la popolazione sul suo desiderio d’integrarsi o meno alla Grecia.
Insomma, alla fine né il governo di Ankara né quello di Atene decisero di ratificare il trattato.
All’epoca, infatti, i greci si trovavano ancora in una posizione di forza. Ottenuto l’appoggio del prime minister britannico David Lloyd George, Eleutherios Venizelos era pronto a condurre delle offensive verso l’interno dell’Anatolia, in direzione Ankara, per costringere i turchi a cedere persino di più di quanto fatto a Sèvres. Il confronto di forze pendeva dalla parte di Atene per numero, addestramento ed equipaggiamento in quel momento, e se si fosse proceduto rapidamente si sarebbe potuta ottenere una vittoria decisiva.
Purtroppo per i sogni degli ellenici, accaddero due cose:
1) Consapevole della sua inferiorità, Mustafa Kemal ordinò di resistere mediante una difesa elastica, sfuggendo i combattimenti di linea e barattando spazio in cambio di tempo.
2) Nell’ottobre del 1920 il giovane re Alexandros I venne morso da una scimmia nei giardini del palazzo reale e morì, poco dopo, di setticemia. Questo creò un problema di successione e di governo, in quanto l’ex sovrano Konstantinos – padre di Alexandros – sembrò prossimo a ritornare sul trono dopo la sua forzata abdicazione in quanto filotedesco.
Venizelos si oppose a questa restaurazione, tanto da prospettare anche l’avvento della repubblica. Alle elezioni legislative del 1° novembre, però, i monarchici stravinsero. I fedeli al primo ministro ottennero appena 118 seggi su 369. Lo shock fu così grave che Venizelos e i suoi fedelissimi abbandonarono il paese per andare in esilio, mentre i fedeli di Konstantinos, ora che avevano in mano il pieno potere, portarono avanti un’epurazione tra i generali esperti che guidavano le truppe in Anatolia, sostituendoli con altri molto meno esperti, ma di provata fedeltà verso il trono, guidati dal generale Anastasios Papoulas.
Il nuovo primo ministro, Dimitrios Rallis, organizzò un plebiscito destinato a richiamare Konstantinos al potere. All’estero, la restaurazione del cognato del kaiser – unita all’allontanamento di Venizelos, molto apprezzato dai britannici – era così tanto malvista che i membri dell’Intesa fecero sapere ad Atene che avrebbero tolto ogni loro sostegno se il precedente basileus fosse asceso di nuovo sul trono. Nonostante tutto, in dicembre i risultati (truccati) si espressero con uno schiacciante 99% dei voti in favore del ritorno di Konstantinos.
Come conseguenza, la Grecia si ritrovò isolata sulla scena internazionale, mentre al contrario il governo di Ankara venne sempre più sostenuto in via ufficiosa da altri governi, tra cui l’Italia e persino l’Unione Sovietica.
Tra il dicembre 1920 e il marzo 1921 i greci passarono all’offensiva, questa volta puntando verso la capitale nemica. Le resistenza turca, però, si fece via via più dura. I mesi persi tra l’ottobre e il dicembre erano costati tantissimo in termini di tempo concesso a questi ultimi per organizzarsi. L’11 gennaio 1921 un confronto minore presso İnönü vide per la prima volta i greci che si ritirarono sulle loro posizioni. I numeri erano risibili per gli standard del periodo (15o morti, 300 feriti e 200 prigionieri), ma a livello politico e strategico viene considerata la prima crepa che preannunciò il futuro tracollo ellenico.
A segno di ciò il mirliva (colonnello) turco che comandava quel giorno, Mustafa İsmet, scelse di adottare “İnönü” come proprio cognome.
La vittoria, infatti, aveva portato ad un riconoscimento politico da parte delle potenze vincitrici del governo rivoluzionario di Ankara, a cui venne proposto un emendamento più favorevole del trattato di Sèvres. I turchi furono abili nel contrattare con Italia, Francia e Gran Bretagna fino a trovare un accordo che potesse soddisfare tutte le parti, isolando ancora di più la Grecia, che ora passava diplomaticamente come Stato aggressore ed espansionista.
L’esercito ellenico, disperato, tra il 27 e il 30 marzo scatena la seconda battaglia di İnönü, dove 30.000 greci affrontarono 15.000 turchi. Questa volta la sconfitta dei primi fu ancora più netta, dando respiro alle magre forze di difesa turche, sempre più assottigliate. Fu un secondo campanello di allarme per i greci, che lo ignorarono.
Tra la primavera e l’autunno dello stesso anno Mustafa Kemal chiuse tutti i fronti aperti al di fuori di quello greco, e ottiene dalla Francia e dall’Italia armi e munizioni (ad esempio il 7 ottobre riuscì a negoziare con Parigi il loro abbandono della Cilicia e la cessione gratuita di 10.000 uniformi, 10.000 fucili, 2.000 cavalli, 10 aerei e il centro telegrafico di Adana), oltre ad informazioni utilissime sulle forze nemiche.
Nel marzo 1921 viene anche firmato il Trattato di Mosca, che concluse la guerra turco-armena e aprì ad ottimi rapporti con il nuovo governo sovietico, che in cambio di un mutuo riconoscimento diplomatico si impegnò a fornire fondi e munizioni ad Ankara.
I greci, a questo punto, tentarono il tutto per tutto con un’ultima, grande offensiva. Per un mese, dal 27 giugno al 20 luglio 1921, si svolse la battaglia di Afyonkarahisar-Eskişehir, in cui 110.000 greci prevalsero su 90.000 turchi. Le perdite per i secondi furono pesanti, con 7.000 tra morti, feriti e prigionieri e 30.000 che disertarono. Purtroppo per Atene, però, le sue truppe non riuscirono a circondare e annientare il nemico, che organizzò una ritirata strategica ad est del fiume Sangarios.
In quel momento, però, il trionfo definitivo sembrò ad un passo. Le divisioni elleniche più avanzate erano giunte a meno di 100 chilometri dalla capitale turca, tanto che Konstantinos (che si era autoassegnato il numero dinastico di XII per la sua seconda incoronazione, proclamandosi così erede diretto di quel Konstantinos XI che aveva difeso Costantinopoli dagli ottomani nel 1453) lanciò il grido “Ad Angora!” e invitò gli ufficiali britannici ad assistere ad un pranzo celebrativo della vittoria presso Ankara.
Consci che quella davanti a loro sarebbe stata la battaglia decisiva, i rivoluzionari sostituirono Mustafa İsmet İnönü, che aveva perso la battaglia precedente, con Mustafa Kemal e Mustafa Fevzi Çakmak, e ordinarono loro di organizzare una resistenza ad ogni costo, che perdurò per quasi un mese (23 agosto-13 settembre 2021) sul fiume Sangarios (Sakarya per i turchi).
Ancora una volta, superiori forza greche (120.000 uomini) affrontarono un esercito turco di 90.000, peggio armato ed equipaggiato, ma desideroso di difendere quello che rimaneva della patria dall’invasore straniero. La difesa turca si era posizionata sulle alture dell’area e i soldati greci dovettero prenderle d’assalto una ad una. I rivoluzionari riuscirono a conservare alcune posizioni, ne persero altre, mentre alcune vennero più volte conquistate, perdute e riconquistate.
Gli ufficiali turchi diedero l’esempio in prima persona, tanto che alla fine si contò un rateo di caduti inusuale pari al 70-80% tra i loro ranghi, e la battaglia passò nella loro tradizione militare come Subaylar Savaşı, per l’appunto “La battaglia degli ufficiali”.
Ad ogni modo il punto critico venne raggiunto quando le divisioni greche tentarono di prendere Haymana, a 50 chilometri da Ankara. Lo scontro fu talmente feroce da portare entrambe le parti al limite del collasso, ma furono gli ellenici a cedere per primi, nonostante fossero ormai a pochi passi dal traguardo.
La vittoria strategica turca era costata tantissimo (38.000 perdite contro 21.000 greche), ma a livello politico segnò il definitivo cambio di fase del conflitto.
Atene fece ritirare i suoi soldati sulle linee difensive di giugno, Mustafa Kamal e Mustafa Fevzi Çakmak ottennero il titolo di mareşal (maresciallo, poi mai più assegnato in futuro) e le Grandi Potenze si convinsero del tutto che Sèvres andava rivisto, proponendo un armistizio generale. A questo punto, però, fu Mustafa Kemal a non voler interrompere il conflitto, consapevole che il vantaggio strategico in termini di tempo giocava ora dalla sua parte. Il suo obiettivo divenne quello di ricacciare i greci al di là del mare.
Dopo quasi un anno di preparazione, in cui il morale ellenico si era abbassato ai minimi storici a causa della lunga inazione e dell’indecisione politica ad Atene, a fine agosto del 1922 partì la “Grande Offensiva” o Buyuk Taaruz.
Tra il 26 e il 30 agosto molte basi avanzare greche caddero come alberi secchi di fronte ad un uragano, e a Dumlupınar il fronte viene superato con 15.000 perdite inflitte ai difensori, e la conquista di tutto il loro equipaggiamento.
Il 1º settembre, Mustafa Kemal lanciò il suo celebre proclama: «Soldati, il vostro primo obiettivo è il Mediterraneo, avanti!». L’indomani, Eskişehir venne ripresa e a seguire caddero Balıkesir, Bilecik, Aydın e Manisa. In Grecia, il governo presentò le proprie dimissioni mentre la cavalleria turca entra a Smyrne il 9 settembre. L’espulsione dell’esercito greco d’Anatolia si esaurì, ingloriosamente, il 14 settembre.
Il crollo di tre anni di offensive elleniche ebbe luogo in neanche 20 giorni.
L’umiliazione assoluta di Atena venne raggiunta con la Crisi di Çanakkale, quando i britannici tentano di far conservare ai loro alleati greci almeno la Tracia Orientale, sbarrando la strada delle forze rivoluzionarie verso Costantinopoli. I francesi e gli italiani, però, si rifiutano di sostenere Londra, e alla fine Charles Harington, comandante alleato nei Dardanelli, proibì ai suoi uomini di sparare sui turchi e mise in guardia il governo di Sua Maestà dall’avviare un’insensata avventura. La flotta greca abbandonò quindi quella che aveva sperato di far ritornare come sua capitale imperiale, e alla fine anche l’esercito viene obbligato da pressioni diplomatiche britanniche a ritirarsi al di là del fiume Maritsa.
Solo allora Mustafa Kemal accetta di aprire i negoziati di pace.
Durante le ultime settimane di guerra, le popolazioni civili greche e armene dell’Asia Minore affluirono terrorizzate verso Smyrne ad un ritmo di più di 20.000 persone al giorno, per sfuggire alle persecuzioni turche. Consapevole dei disordini che sarebbero derivati dalla nuova occupazione della città, Mustafa Kemal pubblicò un proclama destinato ai suoi soldati, in cui minaccia di morte tutti coloro che avessero molestato i non-combattenti smirnioti.
Tuttavia, i suoi ordini vennero largamente ignorati dall’esercito rivoluzionario. Il metropolita ortodosso Chrysostomos Kalafatis venne linciato sulla pubblica piazza, e almeno altre 30.000 persone trovarono la morte in maniera simile.
I cristiani cercano di trovar rifugio sulle navi greche ancora presenti nei porti della costa perché il naviglio straniero, che aveva ricevuto l’ordine di restare neutrale, rifiutò (con l’eccezione di alcune navi giapponesi e italiane) di prendere a bordo dei rifugiati. I quartieri greci e armeni vennero dati alle fiamme in quello che è passato alla storia come “l’incendio di Smyrne”, mentre quelli turchi rimasero sostanzialmente indenni.
Dopo tanto sangue e dolore, l’11 ottobre 1922 venne firmato l’armistizio di Mudanya, che aprì la strada al Trattato di Losanna, in cui verrà cancellato per sempre un mosaico etnico che permaneva da più di duemila anni in Asia Minore. Attraverso gli “scambi di popolazione”, infatti, un milione di greci d’Anatolia sopravvissuti (si parla di un genocidio dei greci, simile a quello armeno, con cifre che vanno da un minimo di 360.000 ad un massimo di 5 milioni, anche se la quota più accreditata oscilla sui 650-700.000) vennero forzati a trasferirsi in Grecia, e lo stesso venne fatto per mezzo milione di turchi che vivevano nei territori europei.
La sconfitta di Atene fu dovuta a molti fattori. Forse le cose sarebbero andate molto diversamente se Alexandros non avesse deciso di accarezzare una scimmia nel suo giardino, e ora la Grecia sarebbe estesa su entrambi i lati del Mare Egeo, con capitale Costantinopoli.
Ad ogni modo, la fine della presenza demografica di popolazioni ellenofone greco-ortodosse in Asia Minore e Ponto mise fine al sogno della Megali Idea, che venne brevemente rispolverato – in versione molto ridotta – dalla giunta militare greca che, nel 1974, tentò di annettere Cipro alla madrepatria. Anche lì, però, una massiccia risposta militare del vecchio nemico turco creò l’ennesima spaccatura tra queste due Nazioni, con i greco-ciprioti che vennero cacciati ad ovest dell’isola, mentre a nord-est venne creata la Kuzey Kıbrıs Türk Cumhuriyeti, o Repubblica Turca di Cipro del Nord, che venne massicciamente popolata da coloni turchi.
Alberto Massaiu
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