L’imperatore Aureliano – Lucius Domitius Aurelianus – fu uno dei più determinanti sovrani di Roma, senza il quale l’Urbe sarebbe caduta con almeno un paio di secoli di anticipo. Di più, forse senza di lui non sarebbero state gettate alcune delle fondamenta necessarie all’affermazione del Cristianesimo come massima religione del bacino del Mediterraneo.
Eppure, nonostante le sue titaniche gesta, di lui si parla ben poco nei manuali di storia, che gli preferiscono imperatori più blasonati come Vespasianus, Titus, Traianus, Hadrianus, Marcus Aurelius, Diocletianus, Constantinus.
Forse la ragione di questa poca attenzione risiede nel periodo in cui visse, uno dei più drammatici della storia della Civitas Aeterna: la cosiddetta “Crisi del III Secolo”. Dopo la drammatica fine della dinastia dei Severi, fondata da Septimius Severus nel 193 e conclusasi con l’assassinio di Alexander Severus nel 235 (anche se, in verità, sia il predecessore di Alexander, Heliogabalus, che quest’ultimo erano solo stati “naturalizzati” come membri della dinastia Severa, ma non avevano neanche una stilla di sangue del grande Septimius), l’Impero Romano era sprofondato in una spirale di anarchia, guerre civili, crisi economica e invasioni esterne che fece temere ai commentatori dell’epoca che la fine fosse vicina.
Nei trentacinque anni precedenti all’ascesa al trono di Aurelianus circa venti augusti indossarono la porpora, con una media appena superiore all’anno e mezzo di regno a testa. Nel 253 Publius Licinius Valerianus decise di dividere l’immenso e traballante impero in due parti, affidando al figlio primogenito Gallienus la Pars Occidentalis e Roma, mentre lui si sarebbe occupato come augustus anziano della Pars Orientalis, che si trovava in quel momento sotto attacco da parte dei persiani sasanidi, il nuovo terribile nemico che aveva sostituito i decaduti parti della dinastia Arsacide.
Un dato interessante: l’Impero Romano era stato già diviso tra due colleghi circa un secolo prima, all’epoca dell’imperatore filosofo Marcus Aurelius, che aveva spartito il trono e il comando militare con il fratello adottivo Lucius Verus. In quel tempo, però, il sovrano “più importante” si era tenuto l’ovest, lasciando l’est al collega. Questo cambio di baricentro strategico espresso da Valerianus fu emblematico dei tempi ormai mutati, e nei secoli successivi questo processo andò ad accentuarsi sempre di più.
Il cuore della romanitas rimase sempre nell’Urbe a livello sacrale e di prestigio, ma i centri di potere mossero verso la periferia, e ancora di più nelle metropoli dell’Egitto, della Siria e dell’Asia Minore.
Ad ogni modo, Valerianus aveva cercato di rimettere in ordine i confini, riprendendo Antiochia – caduta per breve tempo in mani persiane – e affrontando con alterni successi una serie di incursioni anfibie dei goti giunte dal Mar Nero. Il miserevole stato delle forze di frontiera è testimoniato dal fatto che né una flotta, né un esercito, né una cinta muraria poterono evitare il saccheggio di centri importanti come Trebisonda, Calcedonia, Nicea, Nicomedia, Prusa da parte di questi ultimi.
Egli non riuscì neanche ad impedire, nel 256, la cattura e la definitiva distruzione della città-fortezza di Dura Europos da parte dalle truppe persiane, cosa che privò il limes mesopotamico di uno dei suoi capisaldi più importanti.
Nel 260 la reputazione delle armi romane raggiunse il suo punto più basso quando l’imperatore stesso fu sconfitto e catturato dallo šāhanšāh – Re dei Re – Shāhpur I presso Edessa. L’umiliazione di un augustus di Roma fu un colpo morale e propagandistico talmente grande che venne eternata sulla pietra presso le tombe achemenidi vicino all’antica Parsapura (Persepolis per i greci), con una serie di bassorilievi e una descrizione delle sue gesta in persiano, partico e greco:
«Una grande battaglia fu combattuta tra Carrhae e Edessa tra noi [sasanidi] e il Caesar Valerianus, e noi lo catturammo facendolo prigioniero con le nostre mani, così come altri generali dell’armata romana, insieme al prefetto del Pretorio, alcuni senatori e ufficiali. Tutti questi noi facemmo prigionieri e li deportammo in Persia»
La scossa al prestigio romano fu tale che Gallienus si ritrovò immediatamente tra le mani un’insurrezione in Gallia guidata da Postumus, mentre ad oriente dovette venire a patti con Septimius Odaenathus, re della città carovaniera di Palmira, che alleatosi con lui seppe rimettere in ordine la frontiera, tanto da vedersi riconoscere dall’imperatore i titoli di dux romanorum e di corrector totius Orientis.
La dinastia di Valerianus, però, era di certo parecchio iellata, perché ogni volta che si riusciva a sistemare qualcosa, subito dopo arrivava un nuovo colpo. Nel 267-268, infatti, quando Gallienus era riuscito a recuperare quel tanto di stabilità necessario ai confini – ormai ridotti al solo limes danubiano – per tentare la riconquista della Gallia secessionista, una nuova immensa invasione di goti e altri popoli sciamò oltre il Mar Nero e il Mar Egeo, fino a giungere presso luoghi che non vedevano conflitti da secoli come Sparta, Argo, Corinto, Tebe, Atene ed Efeso (dove diedero alle fiamme l’Artemision, il celebre tempio che era stato fino a quel momento una delle sette meraviglie del mondo antico).
Mentre cercava di tamponare questa nuova, immensa falla in Tracia e Asia Minore, venne a sapere del tradimento di uno dei suoi comandanti, Aureolus, che stava cospirando a Milano con i separatisti gallici per sottrargli la porpora. In fretta e furia egli dovette tornare in Italia, dove però trovò la morte per mano dei suoi stessi generali, che elessero tra di loro un nuovo augustus, Claudius II.
Uno dei membri più importanti della congiura che aveva portato al potere il nuovo imperatore-soldato era il nostro Aurelianus, che entra così nella nostra narrazione. Nato nel 214 presso la città di Sirmio – l’attuale Belgrado, in Serbia – era il classico soldato illirico che aveva scalato i ranghi grazie alla propria abilità personale. Freddo, determinato e severissimo, tanto da vedersi affibbiato il soprannome di “manu ad ferrum” o “mano alla spada”, era membro eccellente di una élite militare coltivata da Valerianus.
Il ruolo che ebbe nel golpe contro Gallienus è testimoniato dal fatto che Claudius lo elevò subito al ruolo di magister equitum e gli affidò il teatro più importante al momento, ovvero l’intera frontiera dall’Illirico alla Tracia.
Le forze romane sembrarono contagiate da una incredibile energia sotto questi due grandi soldati. Un’incursione alemanna venne spazzata via presso il lago di Garda, mentre i goti vennero sconfitti pesantemente a Naisso nel 269. Sfortuna volle che Claudius morì l’anno dopo di una di quelle epidemie che, fin dal tempo della Peste Antonina, decimavano cittadini e soldati romani.
La sua dipartita spianò la strada ad Aurelianus, che vinta la contesa con Quintilius (fratello di Claudius) per la porpora, salì al potere nel settembre dello stesso anno. Da questo momento partirono cinque anni intensissimi che modificarono il corso della storia, garantendo a Roma altri due secoli di imperio sul mondo civilizzato.
Le cose erano peggiorate in quegli anni. Ad oriente Odaenathus era morto nel 268, vittima di una congiura forse orchestrata dalla sua stessa moglie, Zenobia, che prese il potere assieme al figlio Vaballathus. Al contrario del marito, che da Palmira aveva restaurato la potestà di Roma nelle province orientali per conto di Gallienus, Zenobia interpretò il suo ruolo in un’ottica imperiale. Ben presto la Siria, la Cappadocia, il Ponto, l’Armenia, la Palestina, la Mesopotamia e persino l’Egitto divennero parte del suo dominio, e Aurelianus dovette in un primo momento riconoscerne l’autorità.
Per placare la sua ambizione, riconobbe ad Vaballathus appena fanciullo il titolo di vir clarissimus rex et imperator dux Romanorum e a Zenobia quello di augusta. Entrambe le parti, però, sapevano che quella era solo una pausa prima della resa dei conti.
Aurelianus, nel frattempo, dovette respingere una nuova grande incursione di alemanni, marcomanni e iutungi che era penetrata in Italia. Sconfitto in un’imboscata presso Piacenza, egli seppe riorganizzare le sue forze e trionfare in modo decisivo presso il fiume Metauro, dove secoli prima un’armata romana aveva sconfitto un’esercito cartaginese che doveva portare rinforzi al grande Hannibal Barca.
Il pericolo era stato fugato, ma il terrore che aveva portato nella penisola convinse l’imperatore a portare avanti una serie di fortificazioni tra cui la costruzione di una nuova, immensa cinta muraria per l’Urbe, i cui resti sono visibili ancora oggi con il nome di Mura Aureliane.
Sistemate le cose in Italia, marciò quindi nei Balcani. Qui sconfisse ancora una volta i goti e, per pacificare una volta per tutte la frontiera, attraversò il Danubio nella martoriata provincia della Dacia, in cui portò avanti una campagna così rapida e distruttiva da ottenere la loro sottomissione.
Conscio, però, che quell’area fosse ormai indifendibile, nell’ottica pragmatica di ottimizzare i confini ordinò l’abbandono della regione, ricollocando gli abitanti, le legioni e gli auxilia rimasti fino ad allora al di là del grande fiume, mentre in Dacia autorizzava l’insediamento di tribù germaniche alleate di Roma come Stati cuscinetto contro future invasioni.
L’Impero secessionista della Gallia si trovava in crisi interna sotto la guida di Tetricus, e non risultava essere una minaccia immediata, perciò Aurelianus decise di concentrare il fior fiore delle sue truppe veterane, temprate da anni di conflitto, contro Zenobia. Nel 272 organizzò perciò un audace attacco a tenaglia in cui egli avanzava via terra in Anatolia, mentre una flotta sotto la guida di un suo fedele generale – anche lui futuro imperatore, Marcus Aurelius Probus – andava a reclamare l’Egitto.
L’unica resistenza dei palmireni prima delle Porte della Cilicia avvenne presso la città di Tyana, che rischiò di essere saccheggiata per l’affronto alla sua autorità. Quando l’insediamento cadde nelle sue mani, però, egli decise di risparmiare gli abitanti, mostrando clemenza. La scelta, che gli costò un po’ di attrito con i suoi soldati che si videro privati di un buon bottino, pagò bene a livello politico, e infatti la sua marcia non vide altri ostacoli fino ad Antiochia, dove incontrò l’esercito palmireno.
Presso Immae i temuti cavalieri catafratti agli ordini del generale Zabdas vennero sconfitti dalla più agile e manovrabile cavalleria leggera romana, mentre lo scontro decisivo si svolse presso Emesa, dove 70.000 soldati agli ordini diretti di Zenobia vennero sbaragliati dai legionari di Aurelianus.
Seguendo la massima che il ferro va battuto finché è caldo, l’imperatore ordinò una marcia forzata nel deserto fino alla capitale nemica, che mise sotto assedio prima che potesse venire predisposta una difesa adeguata. La città e la sua regina caddero così nelle sue mani intatte. Con il tesoro reale egli poté soddisfare i suoi soldati e riempire i forzieri, mentre risparmiava ancora una volta tutta la popolazione, dimostrando la sua misericordia. Anche Zenobia fu tenuta in vita assieme al figlio Vaballathus, che aveva poco più di dieci anni all’epoca, ma in cambio dovette sfilare in catene per le città in cui l’imperatore sfilò nella sua marcia trionfale verso occidente.
Pochi mesi dopo, mentre si trovava di nuovo nei Balcani a respingere un’incursione dei carpi, venne a sapere di un’ennesima sommossa della città di Palmira. Ordinato il retrofront, egli giunse come un fulmine sulla città, che a parte ribellarsi non aveva predisposto né eserciti né difese. Egli la prese facilmente, e questa volta uccise tutti i membri della cospirazione, fece uscire gli abitanti comuni e rase al suolo l’insediamento, portando via ogni ricchezza accumulata negli anni passati.
Da quel momento il grande centro carovaniero non si riprese più, diventando un luogo ben più modesto e irrilevante rispetto al suo florido passato.
Sistemate le cose in oriente, egli si spostò in Italia – dove venne portata Zenobia, a cui venne concesso di ritirarsi in una bella tenuta presso Tivoli – per preparare l’ultima grande fatica, ovvero il recupero della Gallia e della Britannia.
Nella primavera del 274 le forze di Aurelianus affrontarono quelle di Tetricus, ultimo successore della linea di imperatori gallici seguiti a Postumus, presso Chalons. In pratica, non ci fu battaglia. Forse consapevole dell’inferiorità delle sue truppe, oppure conscio dell’assurdità di un conflitto tra romani, fatto sta che Tetricus si arrese al suo avversario quasi senza combattere. Le legioni renane passarono in buona parte intatte all’ormai unico augustus di Roma, che le ricollocò alla frontiera.
Questo esito rapido e quasi incruento è confermato dall’atteggiamento di inusuale clemenza verso un usurpatore. Tetricus, infatti, non fu ucciso, ma venne anzi nominato corrector Lucaniae et Bruttiorum, dove governò con giudizio come amministratore civile negli anni successivi.
A questo punto Aurelianus poté finalmente concedersi un trionfo nell’Urbe come ai tempi del beatissimum saeculum, con carri riccamente addobbati, bestie esotiche dall’oriente, ricchezze e prigionieri illustri da Palmira e dalle tribù barbariche sconfitte anno dopo anno, oltre che Tetricus e suo figlio. Oltre alla sfilata, il sovrano omaggiò il popolo di Roma con giochi gladiatori, corse di carri e perfino una naumachia.
Fu in quel momento che venne proclamato Restitutor Orbis, ovvero il Restauratore del Mondo.
In un mondo in cui spesso si assegnavano titoli come Parthicus o Gothicus Maximus, in cui però si celebrava magari una mezza vittoria, Aurelianus aveva compiuto il miracolo. Nel 270, alla sua ascesa al trono, l’Impero Romano era ridotto all’Italia, all’Africa settentrionale (Egitto escluso), alla Spagna e alla martoriata frontiera del Danubio, con l’appendice di Tracia, Macedonia, Grecia e la parte costiera egea dell’Asia Minore. Aveva sotto il suo controllo appena 14 legioni delle quasi 30 dell’epoca di Septimius Severus, e lo Stato versava in una spirale di corruzione e crisi economica dilaganti.
A cinque anni di distanza, le frontiere erano ritornate quasi ai loro confini precedenti, con l’unica eccezione delle province abbandonate degli Agri Decumates e della Dacia, e qualche città e fortezza in Mesopotamia passata in mani persiane all’epoca delle sconfitte di Valerianus.
Tutto questo, secondo Aurelianus, non era il solo frutto della sua ferrea volontà, ma anche della protezione degli dei. Anzi, di un Nume in particolare: il Sol Invictus. Nato in oriente e legato ad una sorta di monoteismo salvifico e solare, si era nei secoli fuso con tante divinità presenti in Siria, Egitto, Palestina e Asia Minore, tra cui Helios, Apollon, Hel-Gabal e Mithra, quest’ultimo carissimo ai soldati come lui.
Nel 274 egli introdusse questa divinità nell’Urbe, dedicandole un santuario nell’attuale piazza San Silvestro, un ordine di sacerdoti e una festa, il 25 dicembre, chiamata Dies Natalis Solis Invicti. Come avverrà qualche decennio dopo con Constantinus, anche Aurelianus affermava di aver avuto un sogno profetico poco prima della battaglia di Emesa in cui questo dio solare gli aveva promesso la vittoria. Egli stabilì anche che un giorno della settimana fosse dedicato al suo culto, con il nome di Dies Solis. Con l’avvento del Cristianesimo sotto Theodosius questa denominazione mutò nel Dies Dominicus, ma la dicitura creata dall’imperatore permase nel nord, portando al sonntag tedesco e al sunday inglese per indicare la domenica.
Il culto del Sol Invictus divenne da quel momento, e fino a Constantinus – che fu a sua volta, in quanto imperatore, il suo più grande sacerdote per tutta la vita – una delle religioni più importanti all’interno dell’Impero Romano, e molti dei suoi elementi andranno a traslarsi all’interno del Cristianesimo, come ho avuto modo di spiegare in questi due articoli (“l’Antico dio Mithra e il culto del Sole” e “La nascita del Cristianesimo ufficiale a Nicea”).
Ad ogni modo, l’instancabile imperatore aveva un ennesimo obiettivo in mente: la vendetta contro i sasanidi per l’affronto subito quindici anni prima da Valerianus. Detto fatto, egli si mise in marcia verso oriente, giungendo con le sue truppe a Caenophrurium, non lontano dalla cittadina portuale di Bisanzio, sul Mar di Marmara.
Qui la cronaca di Zosimus, che parla dell’evento, dipinge un episodio quasi tragicomico: un segretario di corte, tale Eros, per evitare un severo castigo per un suo errore (o più probabilmente una malversazione, cosa contro la quale Aurelianus si era sempre dimostrato severissimo nelle punizioni) creò dei falsi documenti in cui l’imperatore ordinava l’esecuzione di tutta una serie di alti ufficiali per presunta cospirazione o tradimento.
Questi ultimi, colti dal terrore, agirono per primi senza approfondire la cosa, uccidendo quella sera stessa il grande sovrano, prima di accorgersi dell’errore. La cronaca della Historia Augusta narra che i generali, scoperto l’inganno, piansero il loro defunto signore, e condannarono il segretario ad una morte orribile legato ad un albero in un bosco prospiciente, in attesa di essere divorato vivo dai lupi.
Ad ogni modo fu una fine assurda per un uomo tanto grande da ricevere per le sue gesta i titoli di Pater Patriae, Victoriosus, Pius, Felix, Invictissimus, Sarmaticus, Germanicus, Gothicus, Dacicus, Arabicus, Palmyrenicus, Parthicus e Carpicus Maximus, oltre che Restitutor Orbis.
Di certo la sua opera aveva risollevato l’impero, e il suo retaggio venne seguito da suoi emulatori come Probus, Diocletianus e infine Constantinus, che seppero dare a Roma un altro secolo di gloria, e poi un futuro che, spostandosi sulle rive di quel Bosforo in cui egli morì, altri mille anni di storia.
Alberto Massaiu
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