Eccoci di nuovo qua, dopo un’attesa maggiore di quella che mi ero prefigurato. Uno pensa sempre di avere tutto il tempo che desidera e, troppo spesso, lo disperde in tante attività. Ad ogni modo tra un progetto e l’altro eccomi di nuovo qua, a trascrivere i miei ricordi sulla Nuova Zelanda.
Questa volta non saranno considerazioni generali, ma un vero e proprio diario di viaggio, diviso in tappe, del mio lungo giro per tutto il paese con ragazzi di tantissime nazionalità. Tutti noi eravamo accomunati da alcune cose: l’essere là per un esperienza di working-holiday, ovvero di lavoro e vacanza – con i soldi guadagnati in loco, magari in un vigneto, in una piantagione di qualche tipo o in un ristorante -; lo stare migliaia e migliaia di chilometri lontani dal nostro paese di origine – perfino l’Australia è bella lontanuccia – e avere una buona dose di spirito d’avventura e soprattutto di adattamento, visti alcuni dei posti dove abbiamo pernottato, letteralmente in mezzo al nulla più assoluto.
Insomma, godetevi il racconto, ci rivedremo alla fine di queste prime tappe…
Pahia, Bay of Islands, isola settentrionale. 3-5 febbraio 2014, piena estate.
“Eccomi di nuovo qua a Pahia. Ho già visitato la regione nel periodo di Natale – ma si può definire Natale un momento passato praticamente in spiaggia? -, quando sono stato invitato da dei parenti di Jenny a Keri Keri, un’area di agricoltori e allevatori quassù a nord. Pahia è una piccola cittadina turistica e portuale che dà sulla magnifica Bay of Islands, una serie di golfi, baie e insenature dove centinaia di isole creano un’atmosfera da Pirati dei Caraibi. Non sono purtroppo stato particolarmente fortunato col clima. Nei tre giorni in cui mi sono fermato quassù il tempo è stato nuvoloso e umido, inaugurando una tradizione atmosferica che mi ha perseguitato per una buona parte del viaggio.
Pahia si trova vicino all’insediamento di Waitangi, il sito storico dove nel 1840 i rappresentanti di Sua Maestà la Regina Vittoria e alcuni tra i più influenti e potenti capi maori addivenirono ad un accordo relativo allo status e ai diritti tra l’antico popolo e i nuovi coloni d’oltreoceano.
Inutile dire che fino agli anni ’70 del XX secolo questo trattato venne fatto valere solo per quanto riguardava le prerogative dei bianchi e quasi per nulla per le istanze maori, cosa che portò a numerose rivolte e sequestri di terre delle tribù da parte della Corona o di speculatori privati.
Ad ogni modo le alte scogliere, le spiagge semi-deserte nonostante la stagione turistica – per i neozelandesi erano pienissime, ma per i miei standard mediterranei una spiaggia lunga un chilometro e mezzo con trenta-quaranta persone che prendono il sole è meravigliosamente vuota – e il mare relativamente caldo – non come il nostro Tirreno ma meglio di altre spiagge che ho provato qua – ne fa un piccolo paradiso per il turismo balneare, a cui i più coraggiosi o incoscienti posso unire alcuni sport estremi come lo skydiving.
Per chi non conosce questa nobile arte, lo skydiving consiste nel salire su di un elicottero o un piccolo aereo, si vola fino a 12.000 o 16.000 piedi (più in alto si va, più si paga) e infine ci si getta insieme ad un esperto – si sta legati assieme – in caduta libera per diversi secondi, per poi planare con una sorta di paracadute. Nel mezzo del volo il tuo compagno di salto ti fa un video dritto in faccia, che in genere mostra tutta l’eccitazione o la paura del volo. Alcuni si scrivono sui palmi delle mani frasi un po’ troppo abusate come “This is awesome” oppure “Now I fell alive” o anche solo “I’m alive”, forse sperando di poter confermare la cosa anche all’atterraggio.
Il secondo giorno ho intrapreso l’attività a cui tenevo maggiormente. Una lunga gita in bus fino a raggiungere Cape Reinga, il punto più a nord del paese. Il capo è strettamente collegato nella mitologia maori al passaggio delle anime nell’aldilà, dato che lo consideravano come la fine del loro mondo – dimenticandosi di essere arrivati proprio da settentrione, attraverso le isole polinesiane, con le loro lunghe canoe -.
In lingua maori questo luogo era chiamato Rerenga Wairua, luogo d’incontro tra le acque del mare maschile Te Moana Tapokopoko a Tawhaki e quello femminile Te Tai o Whitireia. L’unione tra i due mari – attualmente chiamati Mare di Tasman a ovest e Oceano Pacifico a est – simboleggiavano la nascita della vita, dovuta all’unione turbolenta delle acque che si schiantano furiosamente sulle rocce di questa affascinante penisoletta rocciosa.
Sopra la scogliera ci sta un faro, innalzato nel 1941 per sostituirne un altro ancora più antico, dietro indicazione di uno sciamano maori che aveva individuato in quel luogo il portale d’accesso dell’aldilà. Mi piace pensare all’idea che il faro sia là per indicare la strada alle anime dei defunti che, dopo un lento peregrinare sulle coste di Aotearoa, raggiungono finalmente un piccolo scoglio che si può osservare dal perfetto punto di osservazione presso il faro. Quel pezzetto di roccia vulcanica è chiamato Te Reinga, che da lì il nome al Capo. Sopra questo scoglio ci sta un albero kahika, chiamato Te Aroha, attraverso le cui radici le anime scendono tra la pietra e l’acqua di questo mondo per poi continuare il loro viaggio verso Hawaiki, la casa di tutti gli spiriti.
Ho trovato questa leggenda molto suggestiva e affascinante, tanto da volerla includere in questa cronaca. Mi rimanda al mondo classico, dove potevi trovare e visitare dei luoghi fisici carichi di spiritualità, come il Monte Olimpo, le grotte a Creta dove era stato allevato Zeus, il santuario di Apollo a Delphi o la discesa negli inferi nell’antro della Sibilla Cumana.
Oramai noi, nel nostro mondo moderno e materialista abbiamo perso questo concetto e perfino la nostra religione maggioritaria, il Cristianesimo, si fa vanto della sua capacità di coniugare Fede e Ragione, non capendo che in questo modo sta uccidendo la sua stessa essenza.
La religione deve essere mistica, arcaica, lontana dal mondo. D’altro canto deve rispondere all’afflato più irrazionale e alle paure più intime degli esseri umani. È tutto il contrario della disciplinata e ordinata ragione. I greci lo sapevano, lo spirito religioso è Dionisiaco, non Apollineo. Per questa ragione ho sentito un brivido nella schiena quando mi sono trovato a passeggiare tra le nere rocce sferzate dal vento oceanico e dall’acqua salmastra, perché ho avvertito un sensazione antica, ancestrale, accresciuta dalla storia che avevo appena scoperto. Un esperienza unica e bellissima.
Tornato a Pahia dopo una lunga giornata spesa sulla strada mistica che porta alla fine del mondo mi sono dedicato ad attività più profane. Sono stato coinvolto da due ragazzi svedesi che ho conosciuto nel mio ostello a fare una lunga marcia nelle foreste tutto intorno alla cittadina, per poi sbucare dalla parte opposta del golfo, dove si trova un altro piccolo insediamento, e da là tornare indietro in traghetto.
Ho accettato subito in quanto mi è parsa una bella avventura, come quando esploravo i boschi, le radure e le piccole pinete di mezza Sardegna durante i picnic di famiglia, a dieci anni.
Bene, non è stato esattamente lo stesso. In primo luogo il calcolo delle distanze. Le mie guide scandinave avevano già visitato una collinetta boscosa là vicino, mettendoci un oretta e qualcosa (un percorso lungo più o meno un chilometro e mezzo) e avevano calcolato che questa volta avremmo avuto davanti una camminata di circa sei chilometri. Preventivammo una tempistica di tre, forse quattro ore contando il traghetto, ci procurammo acqua e provviste per un pranzo leggero, una mappa e ci mettemmo in marcia.
Bene, appurammo pian piano che il percorso che avevamo imboccato non era esattamente quello che loro avevano calcolato, di sei chilometri. Dopo averne fatti quasi cinque in una foresta selvaggia ed esotica, che faceva molto film d’avventura vista la natura totalmente incontaminata e i sentieri appena percepibili, scoprimmo un cartello che indicava esattamente la strada che avevamo progettato di prendere, mettendo in luce che i chilometri non sarebbero stati sei, bensì ventitré. Morale della favola camminammo dalle dieci del mattino fino alle cinque del pomeriggio, mantenendo un buon passo e facendo diverse ma brevi pause per bere e sgranocchiare qualcosa, mentre ci addentravamo in una natura incontaminata e misteriosa.
La cosa che colpisce di più in questo paese è quanto può cambiare la vegetazione anche in soli pochi chilometri. Prima sembravamo in una foresta pluviale, poi in una temperata, poi in una pineta mediterranea, poi ancora pluviale e così via, in un’esplosione di colori e suoni che non avevo mai visto, stando all’interno di una densa e umida vegetazione che da l’impressione di essere totalmente tagliati fuori dal mondo civilizzato. Quando sono tornato all’ostello, per le sei, ero stanchissimo ma molto orgoglioso di aver retto il ritmo e totalmente conquistato da questa natura così indomita e seducente.
Auckland, isola settentrionale. 6 febbraio 2014, piena estate.
Auckland, la capitale morale del paese per usare un’espressione italiana, col suo milione e mezzo di abitanti e l’alto numero di immigrati che le danno un tocco internazionale, in un paese che per il resto è molto omogeneo etnicamente – solo bianchi perlopiù di origine anglosassone, maori o un mix dei due -, non mi ha molto colpito. La Skytower è l’unico edificio di rilievo in un centro città moderno e abbastanza anonimo. Pochi edifici storici, molte banche e negozi che non la caratterizzano diversamente rispetto ad una città americana. Solo i sobborghi le danno un po’ di tono, in quanto sono pieni di eleganti casette in stile vittoriano o edoardiano, con piccoli ma ben curati giardini, lontani dalla ressa e dalla folla che invece si muove nelle due principali vie del centro – Queen street e Albert street -.
Il più bel sobborgo che ho visitato è Devonport, con le sue antiche fortificazioni risalenti alla Prima e alla Seconda Guerra Mondiale, innalzate per difendere i cantieri navali di Auckland dalla flotta del Pacifico del Kaiser Guglielmo prima e dell’Imperatore Hiroito poi. Devonport è stato il primo posto che ho visitato qua in Nuova Zelanda durante i miei primi giorni di ambientamento, ancora squassato dal jetlag.
È stato solo a dicembre del 2013, ma mi sembra ormai una vita fa. Per la prima volta ho avuto un assaggio del modello di vita kiwi, incentrato non nello stare pressati in condomini o caseggiati, ma di avere ognuno la propria casetta separata con giardino, capanno degli attrezzi e piccolo garage. Questo fatto ha portato, in generale, a spalmare i centri abitati in grandi estensioni di territorio, come qua ad Auckland, dove per trovare spazio ad un milione e mezzo di anime si è creata un area urbana estesa quanto quella di Los Angeles, che ha la supera in popolazione di una decina di volte.
Ad ogni modo, se si può dire un qualcosa della Nuova Zelanda, è che non hanno per certo problemi di spazio visto che il paese ha una superficie quasi pari all’Italia, dentro la quale vivono a malapena quattro milioni e mezzo di persone.
Hot Water Beach, isola settentrionale. 7 febbraio 2014, piena estate.
Lasciata dietro di noi l’unica metropoli del paese ci siamo diretti, sotto una pioggia torrenziale – e qua piove veramente tanto -, verso la penisola di Coromandel, un’altra area famosa per le sue spiagge spettacolari, l’isolamento – non ci stava segnale di cellulare manco a pagarlo oro, per chilometri e chilometri – e le sue sorgenti naturali di acqua bollente.
Abbiamo pernottato in alcuni lodge all’interno di un bel campeggio molto moderno, pulito e ben attrezzato. La nostra cena, nell’unico baretto presente, consisteva nella variegata scelta tra fish and chips o diversi tipi di hamburger (per i più salutisti si poteva puntare su di uno vegetariano) che saranno un’altra tipica costante della mia esperienza Kiwi.
Qui ci stavano solo due attività da fare, nonostante la pioggia. La prima è stata la visita al Cathedral Cove, un area generata da una gigantesca esplosione vulcanica che parecchio tempo fa ha modellato l’intera penisola con i detriti, i macigni e il magma fuso, fuoriusciti dalle profondità della terra in un cataclisma preistorico.
Sarebbe stato spettacolare visitare in kayak i pilastri di pietra bianca che sono diventate tante piccole isolette sparse nella baia, ma ovviamente il clima inclemente e il mare mosso ci hanno permesso di fare solo una scarpinata di un’oretta tra rocce e sentieri fangosi fino a raggiungere le spiagge del Cathedral Cove. Il nome viene dalle spettacolari evoluzioni di queste rocce, che sembrano campanili di chiese immerse negli abissi oceanici. Devo ammettere che, nonostante le secchiate d’acqua che ho affrontato con l’unica protezione della mantella impermeabile comprata ad Auckland proprio in previsione di situazioni come questa, è stato proprio il maltempo a creare quell’atmosfera magica e suggestiva che mi ha permesso di apprezzare ancora di più il luogo.
La nebbia che si levava dal mare, nascondendo a tratti e facendo riapparire poi dal nulla scogli e alberi sopra i cavalloni di schiuma grigia; le furiose cascate di acqua che dalle scogliere intorno alla spiaggia precipitavano sulla sabbia creando laghetto increspati che si mischiavano con le onde lunghe che sembravano voler mangiarsi il perimetro sassoso del bagnasciuga – e noi con lui -; le alte muraglie di roccia bianca con i canaloni scavati dal vento e dalla forza del mare creavano, nel complesso, una sensazione fiabesca. Prendere tutta l’acqua che ho preso e inzaccherarmi per bene ne sono valsi assolutamente la pena.
In serata, all’imbrunire, ci siamo dedicati alla seconda attività. La denominazione di Hot Water Beach indica, con un lampante esempio di mancanza di fantasia, la peculiarità del luogo. Sotto la sabbia della spiaggia presso il nostro campeggio, a pochi metri dalle gelide acque dell’Oceano Pacifico, scorrono fiumi di altra acqua, questa volta bollente – 70-100 gradi centigradi -. Il divertimento sta quindi nello scavarti letteralmente una pozza con delle pale o a mani nude, far uscire questo liquido bollente e mischiarlo con il mare in modo da crearti la tua personale piscina a circa 40 gradi. Il vapore generato dall’operazione è tantissimo e crea una bruma sottile tutt’intorno, che si sommava a quella naturale dovuta al maltempo.
Ad un certo punto si è messo anche a piovere e il mix di pioggia dall’alto, vapore in mezzo e bagni bollenti dal basso è stato molto particolare anche se avevo già provato qualcosa del genere in Sardegna alle terme. Oltretutto, una volta bello scaldato dall’acqua termale naturale, mi sono gettato nell’oceano, assaporando l’alternanza tra freddo e caldo che è alla base di ogni trattamento di questo tipo. Mi sono goduto tutte queste ritempranti sensazioni alla grande.
Oltretutto ho avuto la buona idea, quando ho intravisto una pausa tra una scarica di pioggia e l’altra, di tornarmene al mio lodge, anticipando esattamente di un paio di minuti l’ultima scarica di pioggia torrenziale che si sono invece beccati in pieno tutti quelli che si sono attardati troppo.”
Eccoci qua, alla fine di questa prima tappa del mio viaggio. Ci rivedremo nelle prossime, tra esplorazioni in grotta, la visita a Hobbiton, la patria degli Hobbit e la lunga strada per arrivare all’isola meridionale. A presto, Kia Ora!
Alberto Massaiu
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